Utopia Zeman
Il ritorno a Foggia di un allenatore con il limite di essere sempre uguale a se stesso
È bastato l’annuncio a far divampare l’entusiasmo. Fra i tifosi. Fra i non tifosi. Fra i tifosi di altre squadre. Come quando a fine serata partono quelle canzoni ormai démodé e la gente stanca si precipita in pista recuperando l’entusiasmo per un altro ballo. Zdenek Zeman torna a Foggia. Per la quarta volta. Un revival permanente che mette tutti d’accordo. Perché punta sul sentimento che più di ogni altro impregna il calcio: la nostalgia. È una scommessa che crea un Cronosisma alla Kurt Vonnegut. Club e allenatore ritornano insieme per scrivere il futuro prossimo nel nome del passato remoto, per ricostruire un’idea. Anzi, un’utopia. Quella di Zemanlandia, il parco a tema che fra il 1989 e il 1994 aveva fatto divertire cadetteria e Serie A e che subito dopo era stato trasformato in sito archeologico per tramandarne la memoria. Adesso i cancelli riaprono improvvisamente.
A 74 anni, gli ultimi tre passati lontano dalla panchina, il boemo proverà a portare i Satanelli in Serie B dopo l’eliminazione ai playoff di qualche settimana fa. Una suggestione che ora deve essere convertita in impresa. Nell’unico modo che Zeman conosce. Perché in un calcio in evoluzione continua, il boemo è riuscito a rimanere ostinatamente sé stesso. Un pregio. Ma anche un limite. I suoi ultimi anni sono stati una lotta continua contro l’estinzione, una battaglia per dimostrare che il suo calcio, anche se impolverato, non è ancora da rottamare. Anche perché nessun altro approccio tattico è riuscito a trasformarsi in un sentimento popolare così radicato. Con il tempo Zeman è diventato santone e santino. Amato e detestato in parti non uguali, è stato esaltato e criticato. Quasi sempre a priori. Al resto ci ha pensato una narrazione tutta particolare. Perché ci sono sconfitte che diventano addirittura più iconiche delle vittorie. Soprattutto se si protraggono del tempo. L’essenza delle sue disfatte è stata annacquata, gli insuccessi sono diventati semplicemente non vittorie. Perché il trionfo non era strettamente necessario. Quello che contava era il principio, l’ispirazione. Bel gioco e bacheca vuota hanno tramutato Zeman nel sognatore di Ennio Flaiano, quello che “ha i piedi ben piantati sulle nuvole”, in un uomo per definizione all’opposizione. Ingaggiarlo significava sfidare apertamente i poteri costituiti, voleva dire creare una propria identità romantica, una comunità partigiana che viveva in opposizione agli altri. Al resto ci hanno hanno pensato le frasi spot. “Il derby di Roma è una gara come tutte le altre”. E ancora: “In Serie A è più facile segnare che in B”, “Il risultato è casuale, la prestazione no”, “Correndo molto si può incontrare la palla”, “Talvolta i perdenti hanno insegnato più dei vincenti. Penso di aver dato qualcosa di più e di diverso alla gente”. Parole che sono diventate sacre scritture per generazioni intere di tifosi, in un’opera di evangelizzazione che ha toccato tutto lo Stivale.
Zdenek Zeman è stato uno dei grandi rivoluzionari del calcio di fine anni Ottanta. Il 4-3-3 come stella cometa. Uno modulo mutuato dall’Honved e mescolato con l’idea di verticalità, con schemi ispirati all’hockey su ghiaccio. La zona pura come chiodo fisso, in un paese dove per anni si continuerà a giocare con il libero. Ma, soprattutto, un calcio che applica allo sport il concetto di socialismo. Un universo fatto di gradoni, di sacchi di sabbia da portare sulle spalle, di sudore. Una sorte condivisa da tutti. Dal calciatore più talentoso all’ultima delle riserve. Uno vale uno. Per la gioia dei tifosi che in ritiro potevano guardare i loro idoli gocciolanti e smoccolanti, con i quadricipiti che sferragliavano sotto il sole, per la gente normale che poteva vedere i volti degli idoli miliardari stravolti dalla fatica.
Ma dopo aver rivoluzionato, scomposto, stravolto, Zeman è rimasto Zeman. Sempre. “Le mie idee sono sempre le stesse”, ha detto qualche anno fa. Ed è vero. Ogni partita si è trasformata in qualcosa di diverso. È diventata una crociata per affermare l’attualità del suo credo. E come tutte le guerre di religione non può terminare con un armistizio.
In un calcio dove anche Pep Guardiola non ha mai smesso di innovare, Zdenek inizia una nuova battaglia. In palio c’è promozione del Foggia. Ma anche la perpetuazione di un’utopia.