Il Foglio sportivo
Insigne e gli altri attaccanti interrotti
Fa parte della generazione dei bomber italiani che non hanno vinto. E che ora possono cambiare la storia
Dopo l’orrendo lockdown del 2020, la Serie A era ripartita proprio in coincidenza con il passaggio dalla primavera all’estate, quando Torino-Parma 1-1 e Verona-Cagliari 2-1 ebbero il fascino e la dolcezza di un Italia-Germania 4-3. Per tutto il mese precedente – se ricordate, e ammesso che abbiate voglia di ricordarlo – l’unico metadone disponibile erano state le partite di Bundesliga, il campionato che aveva fatto da capofila della riscossa del calcio europeo riprendendo un mese prima degli altri. Per intere settimane in tv ci furono solo Mainz-Augsburg o Union Berlino-Stoccarda – anzi, peggio, a un certo punto della mattinata ci facevamo forza con pensieri indicibili come “Dai, che alle 15.30 c’è Union Berlino-Stoccarda”. Un anno dopo scopriamo che questa traversata del deserto è servita a qualcosa: l’Austria gioca proprio come un medio club tedesco, votata al pressing e all’intensità alla maniera di un Hoffenheim o un Friburgo, e d’altra parte 21 giocatori su 26 in rosa provengono dalla Bundesliga. Gente che corre bene, che sgomita se necessario, che ha un piano.
Gli snodi imprevedibili e talvolta brutali delle partite a eliminazione diretta – che i sudamericani amano riassumere in un’espressione meravigliosa che dice tutto e anche di più: mata-mata – ci obbligano a considerare ogni dettaglio, a fissare fin nel bianco degli occhi ciascuno dei giocatori che scenderanno in campo a Wembley. Banalmente si sostiene che queste sono le notti che esaltano i grandi campioni, e però c’è un problema: l’Italia non ne ha. Dal 2008 a oggi 26 nazioni diverse hanno piazzato almeno un loro attaccante tra i primi venti classificati del Pallone d’Oro – dalla Russia (Arshavin) al Togo (Adebayor), dal Gabon (Aubameyang) alla Serbia (Tadic) – ma non l’Italia, che al massimo può vantarsi del 23° posto di Balotelli nel 2012. Quella dei nati nei primi anni Novanta è una generazione di attaccanti perduti, a cui nessuno mai dedicherà un film o una serie tv, snobbata anche dai grandi marchi che preferiscono tuffarsi a pesce sul commissario tecnico. Ma è da loro – Immobile, 1990; Insigne, 1991; Belotti, 1993; Berardi, 1994 – che tocca passare per scollinare l’Austria, allungare l’orizzonte almeno di un’altra settimana e spedire le nostre ambizioni a un indirizzo nuovo. E qui, tra le pagine chiare e le pagine scure, rimane Lorenzo Insigne. Concepito nella coda dell’estate italiana 1990, Insigne non ha alcun ricordo diretto delle Notti Magiche tragicamente naufragate proprio nella sua città, in una brutta sera di luglio, per mano del giocatore di cui può indossare il numero di maglia solo in Nazionale, perché il suo club l’ha ritirato. Eppure è proprio Insigne che in questi giorni accende la cassa portatile e fa partire l’inno di Nannini&Bennato, dimostrando di non aver troppa voglia di emanciparsi ed evadere dalla prigione dorata che costringe la sua generazione a un confronto eterno, ed eternamente perdente, con i Baggio, i Totti, i Vieri e i Del Piero.
Lo stesso repertorio tecnico di Insigne è un santuario del delpierismo, a cominciare dall’ormai proverbiale tiraggiro autisticamente ripetuto da Lorenzinho decine di volte a stagione, in omaggio al suo idolo da bambino. La sua carriera ad alti livelli è una collezione di momenti splendidi ma lunghi come una storia su Instagram, come la partitella sulla spiaggia Italia-Marocco costellata di prodezze incredibili in Tre uomini e una gamba (“ma come abbiamo fatto a perdere 10 a 3?”). Insigne è l’ultimo italiano ad aver segnato non solo a Wembley (2018) ma anche, nelle coppe europee, al Parco dei Principi e al Bernabeu, là dove portò in vantaggio il Napoli di Sarri con un beffardo tiraggiro (ovviamente) che sorprese un Keylor Navas clamorosamente avanzato; ma poi perse 3-1, e nel suo carniere internazionale non c’è nulla di meglio che una modesta semifinale di Europa League, persa peraltro contro il Dnipro. Euro 2020/21 ha colto il 30enne Insigne all’inizio della parabola discendente della sua carriera-tiraggiro di cui non è ancora chiara la destinazione: potrebbe sbattere malamente sui gradoni del primo anello oppure abbassarsi all’ultimo e infilarsi all’incrocio. Saranno questi giorni a deciderlo.
I precedenti in azzurro Italia non sono esaltanti: una coazione a ripetere dando poi sempre la colpa a qualcun altro, da Conte che lo penalizzava con un 3-5-2 da cui era tagliato fuori a Ventura, beh Ventura, basta la parola, quattordici minuti allo sbaraglio a Stoccolma da mezzala al posto di Verratti, zero a San Siro con celebre nota a margine di De Rossi paonazzo e sprofondato in panchina, con gli occhiacci rossi fiammeggianti stile Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati. Schegge di memoria collettiva che nessuno ricorda davvero di un trentenne che non incide mai, che non ha mai inciso e dal quale ormai nessuno si aspetta più nulla, tanto che in quest’immediata vigilia di Italia-Austria di Insigne (l’unico numero 10 della storia delle grandi Nazionali italiane che non sia mai stato sottoposto a una logorante concorrenza interna) quasi non si parla, oscurato da Jorginho, da Bonucci, da Immobile, persino da Locatelli. Chissà cosa deve pensare un 10 sopraffino e vincente come Mancini che ai suoi tempi, lungo la strada verso la Nazionale, trovava un traffico stile Roma-Ostia il sabato mattina – e il Mancio non era uno che restava imbottigliato volentieri.
Il tempo in cui ci aspettavamo mirabilie a ogni tocco palla di Insigne sembra tramontato: da tre settimane è diventato un trentenne e le circostanze gli impongono di recitare persino la parte del saggio ed elogiare “l’entusiasmo dei giovani”, una di quelle formule magiche da conferenza stampa italiana tipo “la tecnica dei portoghesi” o “la tradizione dei tedeschi”. Al netto degli scherzi da bambinone subito caricati sui social, il massimo della sua forza eversiva è dunque accendere la cassa e cantare Notti Magiche con la sobrietà di un karaoke da matrimonio. Ma adesso in questa valle di lacrime si staglia un Europeo che ha il potere di cambiare il corso della storia e delle carriere di questi attaccanti interrotti, mai presi sul serio nemmeno quando hanno vinto la Scarpa d’Oro come Immobile nel 2020. Avanti Lorenzo! Sei reduce dalla miglior stagione di sempre, condita da 19 gol in Serie A ma finita con un quinto posto a causa di uno sciagurato Napoli-Verona in cui, recitano le statistiche, hai tentato cinque tiri, e nessuno nello specchio. Non sembri possedere la scorza del leader, qualunque sia la gradazione dell’azzurro che porti addosso. Ma se c’è un momento grazie al quale puoi prendere quest’articolo, appallottolarlo, giocarci a basket col cestino dei rifiuti e consigliare all’autore un uso più consono della penna e della carta, quel momento è proprio questo.