Il Foglio Weekend
Mancini, il più bello del reame
Mai tanta gloria, tanti riconoscimenti, tante beatificazioni. Roberto Mancini, allenatore della Nazionale di calcio, vince e sale sempre più in alto. È il nuovo role model. Ormai si contende il primato con Mario Draghi, “il freddo”
Non essendo qui tifosi, ma col massimo rispetto per i tanti amici diversi che guarderanno stasera Italia-Austria (non ho niente contro i tifosi, sono così sensibili), pare di capire però che la sbornia calcistica di questo 2021 abbia significati anche più reconditi e misterici.
Certo, si sa, lo sport riassume sottotraccia movimenti più profondi della società, e in Italia il calcio è sport di Stato, non serve Concordato, così questi Europei, che cascano a fagiolo nell’estate della ripartenza e della fine della peste paiono una specie di sabba del piacere, inno al corpo sciolto che si lascia alle spalle lockdown e coprifuoco. Non capendo bene come si fanno questi green pass o passaporti vaccinali, non avventurandosi all’estero, è poi tutto un brulichio di passione sfogata localmente, una taranta calcistica che irrompe nelle città italiane infuocate. Un sabba a celebrare freneticamente la nazionale e soprattutto il suo capo, Roberto Mancini, il Mister, il Mancio. Una specie di contro-Draghi nel Paese che si avvia alla sua stagione più identitaria: l’estate.
Tutti ne parlano, tutti lo vogliono, tutti lo lodano, il corpo del Mancio. Forse anche per una mancanza: eravamo abituati a un premier “caldo”, con le conferenze stampa notturne, la Puglia, padre Pio. E poi pochette, abiti strizzati, lacca.
Adesso c’è Draghi, efficiente, sì, salvatore della Patria, sì, e però così imprendibile, così anaffettivo, così Bce. Il corpo di Draghi rassicura ma non suscita desideri. E allora eccoci qui in un colossale transfert calcistico a riversare adorazione e affetto: ecco il bromance con questo allenatore che riassume soprattutto i valori in cui ci riconosciamo, un kalos kai agathos in cui il bello viene prima di tutto, il bello è vita...
Una squadra “bella esteticamente”, scrive dunque il Messaggero. ma lo dice pure lui: “siamo i più belli degli europei”. “Mancini ha costruito un bel gruppo”, dice Fabio Capello, insomma siamo in una dimensione soprattutto estetica-estatica. Siamo a D’Annunzio. “L’eleganza del mister”, titola il Corriere. Che continua: “Gli abiti sartoriali, le famose sciarpe, i maglioni, i giacconi sportivi, il ciuffo: il Mancio-style è da anni un punto di riferimento. Inevitabile che finisse per collaborare con un marchio del made in Italy”.
Mancini intanto si fa stilista. Debutterà con una capsule collection per il marchio Paul & Shark al Pitti: “dieci capi tra cui una t-shirt, una felpa, un capo ibrido e un costume. Tutti con bandierina tricolore e firma di Mancini, tutti realizzati in full white”. “I materiali? Piquet, jersey, cotone mercerizzato e microfibra high density e poliestere riciclata ricavata da bottiglie di plastica recuperate in mare" (ormai tutto ciò che è buono e giusto è preso dalle bottiglie di plastica in fondo agli oceani).
Mancini è stilista e indossatore. La sua giacca "è identica a quella di Bearzot nel Mundial ’82”, ha scritto Massimo Coppola su Domani; e poi: “Il Commissario tecnico cambia un po’ di metrosexual con altri metrosexual". E qui ecco il grande tema, la sportività maschia così esposta alle variazioni del gusto e della sensibilità. Mancini "fa entrare anche Bernardeschi, famoso perché indossa spesso la gonna; il giovane giocatore ossigenato che metterebbe la gonna al posto dei calzoncini (che peraltro sarebbe pure più comodo a pensarci ora, dovremmo pensarci per il futuro)”. Certo, la gonna sarebbe comoda anche per eventuali inginocchiamenti, che però, stasera, pare, non ci saranno. Ma se lo stadio di Monaco non si illumina di arcobaleno, se il Vaticano denuncia il Concordato, in attesa del Pitti, alla fine avremo una grande chiesa di giocatori e pretini tutti in gonna per pratici inginocchiamenti? Il termine “metrosexual”, cioè maschioni molto curati ma non per questo gay, fu inventato del resto proprio per un calciatore, quella specie di variante Delta dei giocatore, un tempo razza burina, David Beckham.
Siamo sempre lì, insomma, all’evoluzione e disfida tra il rude sportivo e il depilato testimonial delle pubblicità calcistiche? Ai culoni fascio-marmorei del Foro Italico, che ci guardiamo bene dall’abbattere, come se l’Italia fosse in un perenne remake non di Leni Riefenstahl ma di “Sessomatto”? Di certo questo mondo del calcio, tradizionalmente maschile, oggi è alle prese col gran turbinìo degli eventi, appunto con l’inginocchiamento virtuoso, con le donne calciatrici, con l’enorme spauracchio dell’indicibile armageddon trans-agonistico (il Messaggero affianca le lodi alla nazionale a un paginone sulla signora Laurel Hubbard, rocciosa sollevatrice di pesi che fu sollevatore, e in quello sfoglio combinato, e in quella madame Sisifo che alza dei micidiali manubri, affiancata ai giocatori nazionali ormai tutti fighetti e pettinati e tatuati e levigati che mai saprebbero sollevare quell’immane peso, par di cogliere tutti i timori e tremori di tanti pezzi della società atterrita. Il calcio e lo sport come ultimo rimasuglio di spogliatoio inviolato, come le reti, come altro?).
Son temi: e se il calciatore è l'ultimo role model possibile per maschi eterosessuali tutti d’un pezzo, esposti ai più virali assalti della contemporaneità d’oltreoceano, se negli Stati Uniti Gillette ha abbandonato le pubblicità patriarcali dando inizio a un’epoca di contrizione, con spot femministi autocritici abolendo “Il meglio di un uomo”, in Italia trionfa il faccione di Bobo Vieri che invita a “shave like a bomber”, irrompendo da veicoli bizzarri, in un patriarcato moderato, mediterraneo, rassicurante: per pelli e coscienze sensibilissime.
Tutti intanto a rimpiangere Italia Novanta – e in generale gli europei e i mondiali sono come la maturità e la laurea, ognuno si ricorda dov’era e cosa faceva, tutto sembra migliore e più semplice. E forse anche l’Italia immutabile, nell’epoca in cui si ricicla e si rimembra tutto il riciclabile e rimembrabile, stragi e delitti e vermicini e roba brutta, e dunque perché non ricordare anche le cose belle. E dunque: Fabio Capello dice che “bei tempi”, quel 14 novembre del 1973 quando l’Italia per la prima volta “ha espugnato il mitico stadio di Wembley”; “Mancini ha costruito un bel gruppo”, insomma il bello di un uomo, il bello del calcio...
Il Mancio: generazione di mezzo. Pare tenere un piede nella storia dei calciatori rudi di un tempo, e l’altro in quello di oggi, in cui i calciatori sono fotomodelli con uso di gambe, levigati come vasi cinesi. Estetica fluida-basica del Mancio: che da qualche mese è appunto “global brand ambassador” di questo marchio molto wasp ma che in realtà è di Varese, con capi dall’aspetto un po’ marinaresco e molto diffusi in provincia e dunque perfetti per quest’Italia che, abbandonate le mascherine, si prepara a sciamare per porticcioli e piazze nel frinire di bandiere, ma soprattutto di colletti di polo alzate: il vero alzabandiera identitario del maschio italiano.
Mancini trait d’union tra la vecchia guardia e i Marchisio, belli, biondi, gay friendly. E però, già in nuce, tutto un romanzo omoerotico: protagonista anche Gianluca Vialli, suo compagno dei tempi della Sampdoria. “E’ chiaro che con Vialli lì, a bordo campo, con il suo sguardo pieno e profondo, qualsiasi azzurro deve pensarci bene prima di dire no, non mi piace, così non ce la faccio”, scrive Fabrizio Roncone. Siamo a “quell’estate dell’82”, ma anche a “Quell’estate dell’85”, film di François Ozon attualmente nelle sale, su una bollente relazione tra due maschi e un’ininfluente femmina di passaggio. Non può mancare il ricordo di Lory Del Santo, da epoche remote, che racconta del suo breve flirt con Roberto Mancini: "Avevo due possibilità. Potevo scegliere tra lui e Vialli. Sapevo che era solo per una volta, ero capitata per caso ad una cena, non mi ricordo neanche chi mi avesse invitato. Era finita tardi, non sapevo dove andare a dormire, quindi ero rimasta in questo posto. Avevo capito che tutti e due erano interessati a me, dovevo scegliere con chi dormire, poi la mattina sarei partita. Ho scelto Mancini anche se Vialli era bellissimo, ma mi sembrava più playboy. Mancini mi sembrava più dolce, forse ho scelto l'uomo della sicurezza. Si è dimostrato un uomo di una dolcezza incredibile. Ha un suo mondo interiore particolare" .
A proposito di mondo interiore: “ogni sua scelta è intelligente”, dice un altro bello del calcio, Marco Tardelli, aggiungendo ulteriore frisson calcistico-erotico. Mentre la compagna Myrta Merlino, su Oggi: “Io ho bisogno di stare con Marco, di vivere Marco” (un po’ Manuel Fantoni: “gli americani il corpo lo nutrono, lo vivono, lo amano”). Ma anche: “L’amore mi ha regalato una pace che non avevo. Sono diventata sicura. Avevo una maschera, ora non più… Adesso mi sono liberata”.
Sesso, bellezza, intelligenza, liberazione. Che estate, quest'estate infuocata. “Siamo una scuola di piacere”, scrive Mario Sconcerti sul Corriere a proposito della nazionale. “Non riusciamo a essere banali”; (che affascinante, la lingua della critica calcistica, è peculiare come quella sull’architettura e sull’Opera). “Mancini ha costruito un gruppo di calciatori intelligenti, giocano pensando, dominano gli avversari perché giocano semplice e la semplicità scompone, disorienta. Questa è una squadra di giovani maestri, dove chi entra segna (Locatelli, Pessina) e qualcosa insegna”. Giocano/pensando, chi entra/segna, qualcosa/insegna”, insomma siamo di nuovo in pieno D’Annunzio (ma anche un po' Foscolo).
La fortuna dell’Italia, diceva del resto il Vate, è “inseparabile dalle sorti della bellezza”. E così il Mancio, “italian football legend”, come da spot Paul & Shark, è anche testimonial della Marche: e lì, attraversando pievi, palazzi nobiliari, teatri, “Farò di tutto per farvi conoscere questa sconfinata bellezza”, dice, mentre passeggia sulle rive del Conero, o s’infila nelle grotte di Frasassi. "Siamo molto orgogliosi di questo risultato - ha dichiarato il presidente della Regione Acquaroli - siamo sicuri che sarà molto efficace nel promuovere l'immagine della nostra terra". E anche in questi spot qui il Mancio è un ibrido: non impacciato come il leggendario e primordiale Roberto Baggio nei suoi spot IP anni Novanta, poi parodiati da Corrado Guzzanti in quei “vieni alla Pipì”; non nativo-instagrammatico come quelli nuovi, i Ronaldo di oggi. Maschio italiano risolto, a spasso per le Marche, ciuffo bianco, come quelli che si vedono nei primari bagni di Civitanova Marche, lo Zerovirgola, dove andava il conte Vanni Leopardi, o lo Shada, preferito dagli eredi delle scarpe.
Ma il Mancio supera la dimensione local e diventa testimonial per l’Italia intera. La sua bellezza. “Io scelgo l’Italia”, dice in un altro spot per il ministero del Turismo, coi suoi calciatori che a uno a uno dicono: “io scelgo la costiera”, “io la Sardegna”, eccetera, e poi conclude lui, il Mancio: “anche gli azzurri giocano in squadra con l’Italia del Turismo. Fallo anche tu, scegli l’Italia per le tue vacanze!”.
L’Italia intanto attende soprattutto la finale. Con un sogno segreto: che sia a Roma. Draghi, forse oscurato da Mancini, forse in transizione verso una versione "calda", forse voglioso di un po’ di calore e d'affetto, dopo tanta rigida efficienza, dopo aver messo su la photo opportunity del recovery fund versione Dolce Vita allo studio 5 di Cinecittà, invoca che la finale sia qui. Nella sua città. Non Wembley ma Roma. Una specie di Pratica di Mare del calcio. Ma pare impossibile.
Roma però ci spera: questa roma verdoniana, nel weekend di Pietro e Paolo, detto Pietro e Ponza, dove chi può se ne va anzi se n'è già andato, con la temperatura che sale sempre di più e tutto è liquefatto, mentre i turisti in versione Marisol son tornati sciabattanti e festanti. Non sarà facile: c'è tutto uno scontro diplomatico, dietro. Aumentato in intensità nelle ultime settimane, scrive il Messaggero, con Londra, “prima per la detenzione ingiustificata di alcuni cittadini europei - tra cui alcuni italiani - nei centri di identificazione britannici e poi in particolare attorno alla ‘guerra delle salsicce’, la battaglia sulle regole relative alla commercializzazione del macinato dal Regno Unito in Irlanda del Nord, l’unica nazione britannica a essere rimasta nel mercato europeo. E nell’ultimo mese la battaglia si è consumata anche a colpi di quarantene, in particolare con il nostro Paese: prima l’ha disposta il Regno unito per gli arrivi dall’Italia, poi noi abbiamo preso la stessa misura nei loro confronti. E il nostro green pass non vale per entrare in Inghilterra: chi volerà a Londra oggi per l’ottavo contro l’Austria - squadra, staff, addetti ai lavori e giornalisti al seguito - dovrà essersi preventivamente tamponato”.
Così ecco che un altro sex symbol del calcio brizzolato, Mourinho, atteso a Roma, passa dal Portogallo e da lì verrà in Italia, per sfuggire alla quarantena della perfida Albione. Ma questo controromanzo calcistico col Covid è un subplot avvincente. E c’è un sub-sub plot: mentre si attende la nazionale, nazionale non inginocchiata, non succube del Black Live Matters estero, che abbatte le statue dei colonizzatori, e incombe la battaglia delle salsicce, nella Roma torrida di stasera che attende sui maxischermi Italia-Austria, è stata insozzata la statua alla porchetta. Già, qualcuno ha macchiato di rosso la incongrua, assurda statua di un enorme maiale porchettato, voluta dalla Rome University of Fine Arts (vabbè), e piazzata in piena Trastevere. Lasciata lì, qualche giorno fa, tipo objet trouvé, col timore che lì rimarrà per sempre, nell'accidia romana. Tra ciabatte e monopattini.
E forse è un presagio, forse il porchettone è il simbolo della nostra estate libera e sfrenata che è già qui. Adulti e vaccinati siamo, e attendiamo gli eventi. Comunque “pronti per una nuova stagione”, come dice il Mancio, nello spot sulla bellezza italiana.