Il grande antipatico. Frank De Boer non è "il peggior allenatore della storia"
A Euro 2020 l'Olanda prova a ritornare tra le grandi d'Europa. E il suo commissario tecnico cerca il riscatto dopo i troppi fallimenti, riscrivendo il calcio degli Oranje
Non era il benvenuto. E forse non lo sarebbe mai stato. Lo aveva capito subito, molto prima di mettere la firma sul contratto. Perché i tifosi avrebbero preferito un altro nome per la panchina dell’Olanda. Anzi, avrebbero preferito qualsiasi altro nome. Tutti fuorché lui. D’altra parte sulla schiena di Frank De Boer era stata appiccicata un’etichetta. E sopra c’era scritto: "Il peggior allenatore della storia". Se l’era sentito dire ai tempi dell’Inter. Se l’era sentito ripetere ai tempi del Crystal Palace. Se lo sarebbe sentito dire qualche settimana dopo aver accettato quell’incarico. Ma questo ancora non poteva prevederlo.
Nell’estate del 2020 la farfalla aveva iniziato a battere le ali a Barcellona. E l’uragano si era manifestato in Olanda. Nelle sue venti partite da commissario degli Oranje, Ronald Koeman era riuscito a ridare credibilità a una selezione che non si qualificava a un torneo internazionale del 2014. Poi il Barça gli aveva chiesto di soprintendere l’ennesima ricostruzione. E l’ex difensore aveva accettato. Solo che adesso serviva un nuovo selezionatore per l’arancia meccanica. La scelta non era facile. Perché tutti i candidati più autorevoli erano impegnati. Serviva un piano B, un nome a sorpresa. La Federazione aveva preso tempo. Aveva chiesto a Dwight Lodeweges di passare da vice a commissario tecnico. Ma solo per due partite. Poi aveva alzato il telefono. La scelta era ricaduta su Frank De Boer. Non perché fosse il più bravo, per carità. Ma perché aveva in testa alcuni principi di gioco compatibili con le idee che la Federcalcio voleva portare avanti. E poi perché era quello più semplice da mettere sotto contratto. Condottiero suo malgrado, l’ex difensore si era trovato al centro di un paradosso: un allenatore estremamente polarizzante doveva diventare simbolo di unità calcistica nazionale.
La geografia di De Boer si è sempre concentrata sulla definizione di un confine che separi i suoi meriti dai suoi demeriti, la sua carriera è stata trasformata in contabilità, in un saldo continuo fra successi e fallimenti. Nei suoi sei anni all’Ajax ha vinto 4 scudetti. Uno dopo l’altro. Poi si è fermato. Il primo passo falso in favore del PSV è stato considerato calo fisiologico. Il secondo qualcosa di molto vicino al suicidio sportivo. A 90’ dal termine del campionato i lancieri erano primi in classifica. Poi hanno pareggiato contro il già retrocesso De Graafschap mentre la squadra di Eindhoven ha vinto in casa dello Zwolle. La sconfitta ha generato uno shock. E ha provocato l’esonero dell’allenatore. Anzi, la risoluzione consensuale del suo contratto. "Quando sono arrivato l’Ajax non giocava a calcio. Non creava occasioni. Io volevo giocare in modo dominante, un calcio d’attacco", dirà De Boer. E ancora: "Abbiamo vinto 4 volte il campionato. Era un Ajax molto diverso, un’altra epoca. Mi sono dovuto accontentare di ragazzi come Tobias Sana, Danny Hoesen, Niklas Moisander, Aras Özbiliz, Lorenzo Ebecilio - ha detto a Voetbal International - Non ho niente contro quei ragazzi, ma non si può paragonare il livello di quell’Ajax a quello di oggi". Per alcuni sono scuse. Per altri una verità inconfutabile. Per tutti dichiarazioni poco eleganti.
A Milano andrà ancora peggio. Ad agosto 2016 diventa allenatore dell’Inter a due settimane dall’inizio del campionato. Ma solo perché Roberto Mancini aveva deciso di dire addio a causa di un budget troppo ridotto da spendere sul mercato. Frank arriva e dice chiaramente di aver bisogno almeno di quattro mesi di tempo. Qualcosa che nel calcio di oggi assomiglia molto a un’era geologica. Dopo due mesi e mezzo è già finita. L’Inter ha giocato 14 partite fra campionato e coppa. E ne ha perse la metà esatta. In Serie A è 14sima. In Europa League ultima nel girone. È un altro addio. I giornali pubblicano la frase di qualche ex giocatore interista. Più una comparsa che un protagonista. Ma basta a fare notizia: "De Boer è il peggiore allenatore del mondo", dice. È una boutade che diventa marchio impresso a fuoco.
Nel 2017 vola in Inghilterra. È la nuova guida del Crystal Palace, un club cha l’anno prima ha chiuso quattordicesimo. L’inizio è da incubo. Quattro partite. Quattro sconfitte. Grazie, arrivederci. Qualche mese dopo l’olandese punge Mourinho. Il portoghese risponde: "Frank de Boer? È peggior tecnico della storia della Premier League". Un altro primato. Ma ancora al contrario.
A Frank è rimasta solo una scelta. Per poter ricominciare si deve trasferire alla periferia del calcio. Soltanto che stavolta è parecchio distante dal centro. La nuova sfida si chiama Atlanta United. Porta a casa la coppa degli Stati Uniti, poi qualcosa va in pezzi. La squadra gioca 3 partite nel Gruppo E. Le perde tutte. Sempre per 1-0. È il quarto esonero su quattro avventure. Un percorso netto, un en plein negativo che si trasforma nel masso che De Boer, come Sisifo, è costretto a portarsi sulle spalle. In eterno. I problemi antichi di De Boer non sono divagazione. Diventano chiave di lettura, strumento per interpretare il presente. Quando viene nominato cittì Frank sa di non essere esattamente l’uomo giusto al momento giusto. Per questo decide di abiurare il proprio credo. Almeno per un po’. Se avesse stravolto l’impianto di Koeman sarebbe stato considerato un uomo tracotante. E si sarebbe bruciato. Così De Boer fa un passo indietro. Conferma il 4-3-3. Conferma gli schemi del suo predecessore. Qualcuno lo definisce un Koeman 2.0, un allenatore senza una propria idea. Eppure il suo credo Frank ce l’ha eccome. Solo he non sempre riesce a incastrarsi dentro a quello di Koeman.
Le prime uscite sono un disastro. L’Olanda perde contro il Messico. Poi pareggia tre partite una dopo l’altra. De Boer sente quell’etichetta appiccicarsi di nuovo contro la sua schiena. È il peggiore allenatore della storia della selezione arancione. E stavolta sono i numeri a dirlo. Perché nessun commissario tecnico aveva mancato la vittoria nelle prime 4 gare della propria avventura. "Ho scelto di non rispondere alle accuse - ha detto - Se avessi deciso di lasciare il segno subito, avrei ricevuto ancora più resistenza di quanta non ce ne fosse stata al momento del mio arrivo". Uno scetticismo che continua ancora ora, ma che De Boer considera tutto sommato comprensibile: "Posso immaginare che le persone avrebbero preferito Van Gaal, Ten Cate, Bosz. E capisco che non gli sia venuto subito in mente il mio nome". Un po’ alla volta il tecnico sovrappone i propri principi a quelli di Koeman. Le convocazioni a Euro 2020 completano il travaso. De Boer accantona il 4-3-3 in favore del 3-5-2. Un concetto che per qualche tifoso assomiglia a una bestemmia pronunciata in chiesa. È un modulo che fa saltare un’icona nazionale, che diventa stereotipo di difensivismo. De Boer non divine più leggibile sulla base della tradizione. Sembra discostarsene. "Abbiamo dimostrato che il 3-5-2 può essere molto offensivo - ha detto De Vrij - Contro l’Ucraina in 10 minuti abbiamo tirato 7 volte. Quindi è tutta una questione di interpretazione". Ma con il nuovo assetto le ali diventano improvvisamente orpelli. Quindi possono essere lasciate a casa. Soprattutto quelle più giovani e anarchiche. Il cambiamento più importante è in attacco. Depay non è più il genio sovversivo che fa girare tutto il reparto offensivo da solo. Accanto a lui hanno giocato due calciatori dalle caratteristiche diverse. Prima Wout Weghorst, attaccante di 198 centimetri con la passione per le camminate insieme agli anziani e con un bottino stagionale di 25 reti stagionali. Poi, contro la Macedonia del Nord, Donyell Malen, punta più agile ed estremamente veloce. Due nomi che si sono trasformati in un amplificatore del talento di Depay. E che hanno aumentato le possibilità che le sue giocate vadano a buon fine.
"L’unica cosa che vogliamo fare è migliorare e nuotare nei canali di Amsterdam dopo aver vinto la finale", ha detto De Boer. Per lui sarebbe il modo migliore per prendersi una rivincita. E per staccarsi dalla schiena quell’etichetta di peggior allenatore della storia.