Il Tour de France è un aggrovigliarsi di biciclette
A Pontivy vince Merlier, verso Pontivy strade strette, nervosismo e confusione mandano il gruppo in frantumi. C'è qualche problema di sicurezza alla Grande Boucle e neppure un Groenewegen a cui dare tutta la colpa
Se la ragione è dalla parte di chi sta in piedi, o così disse Felice Gimondi commentando nel 2014 le cadute che avevano estromesso dalla Grande Boucle Alberto Contador e Chris Froome, oggi al Tour de France certamente il torto non sta dalla parte di chi è caduto. Suppergiù almeno un quarto del gruppo. Oltre metà se si considera anche chi è stato rallentato da queste.
E non hanno torto perché a finire a terra oggi era cosa semplicissima.
Che il Tour de France, soprattutto nella prima settimana, sia una corsa ben più complicata di quanto un’altimetria può far credere è cosa nota, topografica e orografica. In Francia la pianura è un concetto strambo, non esiste davvero. Si percorrono territori antichi solcati da rughe ancestrali. Si sale e si scende di continuo, si accumulano centinaia e centinaia di metri di dislivello senza nemmeno accorgersene. Non bastasse questo, quando si lasciano le strade a scorrimento veloce o semiveloce, ci si imbatte in un groviglio di stradine delle quali è impossibile riconoscere il principio e la fine. “Presumo che le strade nelle campagne francesi abbiano una vita propria, si modificano nottetempo. È da dieci anni che mi sono trasferito in campagna e da dieci anni sono incapace a trovare la via di casa”, ironizzò l’attore e mimo Jacques Tati.
Ne sanno qualcosa i corridori della corsa a tappe d’Oltralpe. Al Tour infatti non solo serve pedalare veloce, ma saperlo fare anche con una certa accortezza e perizia e “avere un bel po’ di culo che tutto vada per il verso giusto”, sottolineò Laurent Fignon nel 1986.
Oggi accortezza e perizia non sono bastate. La fortuna neppure. Questa serve mai quando il gruppo (semi) compatto affronta a velocità sostenuta strade nelle quali al massimo concedono il passaggio di una mezza dozzina di ciclisti affiancati. Cadere è semplice, ci vuole un attimo. Così è andata anche oggi.
L’incedere del gruppo è stato segnato da cinque cadute. La prima, a inizio tappa, ha visto al suolo, tra gli altri, Geraint Thomas, che si è rialzato dopo oltre un minuto, e Robert Gesink, che invece ha salutato. E in questa il tracciato non ha avuto colpe.
È diventato grande protagonista più tardi in quei folli ultimi dieci chilometri nei quali il gruppo si è frastagliato come accade nelle tappe di montagna. Peccato che oggi di montagna non ce ne fosse e la cima più alta segnasse appena centosessanta metri.
Dieci chilometri di asfalto disperso nella Bretagna hanno disperso corridori e più di un’ambizione. Quelle velocistiche di Mark Cavendish e Arnaud Démare, che si sono trovati dove non dovevano essere, ossia dietro a biciclette che pensavano amiche ma accartocciatesi tra loro. Quelle gialle di Primoz Roglic che ha provato a superare Sonny Colbrelli dove era quasi impossibile farlo. E infatti è finito sull’asfalto. Quelle da podio di Jack Haig ritrovatosi a terra suo malgrado in una confusione di bici che vagavano dappertutto senza avere in sella i legittimi proprietari. Quelle di rivalsa di Miguel Angel Lopez trovatosi per l’ennesima volta in mezzo a sventure altrui.
Mancava solo la caduta in volata. Il fatto che nel gruppo di testa fossero in pochissimi sembrava poterla scongiurare. Si è presentata pure quella. Questa volta è stata iniziativa personale di Calen Ewan che per eccesso d’azzardo e di foga ha urtato la ruota posteriore di Tim Merlier e ha mandato a gambe all’aria pure Peter Sagan.
È andata bene a pochi oggi. A Tim Merlier senz’altro: primo a braccia alzate sotto il traguardo di Pontivy. A Julian Alaphilippe e Richard Carapaz che arrivano con i primi. A Vincenzo Nibali, Nairo Quintana e Wilko Kelderman che perdono appena quattordici secondi. Visto quello che è accaduto, un successone.
Non è andata male a Tadej Pogačar, David Goudu, Geraint Thomas e Rigoberto Uran che hanno perso ventiquattro secondi, ma almeno non hanno subito troppi acciacchi. Roglic e Lopez sono quelli che hanno pagato di più: 1’21”.
Marc Madiot, manager della Groupama-FDJ, ha preferito la schiettezza ai giri di parole inutili: "Sono un padre e non voglio che mio figlio diventi un ciclista professionista dopo quello che abbiamo visto oggi. Non è più il ciclismo. Dobbiamo cambiare, non si può continuare così. Se non lo facciamo, la gente morirà. Non è degno del nostro sport". Pensare di far passare per stradine un gruppo di oltre centocinquanta corridori che lottano per tenere avanti velocisti e uomini di classifica ha davvero senso? Non meriterebbe un'attenzione maggiore la sicurezza dei ciclisti?
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