AP Photo/Vadim Ghirda, Pool

Adieu, champagne. Vincere un Europeo è noia e fatica

Francesco Gottardi

Difese allegre, spettacolo, colpi di scena: l'edizione itinerante sta conquistando il grande pubblico. Ma quello dei campioni è un vino fermo e senza schiuma. Excursus eno-pallonaro

Le bollicine lasciatele a noi. Che spasso, davanti alla tv: un pareggio da sei gol nella fase a eliminazione diretta di un Europeo non si era mai visto e lunedì nel giro di poche ore ne sono piovuti addirittura due, Francia e Croazia – finaliste sbiadite dell’ultimo Mondiale – a farne le spese. Né una squadra era mai riuscita a segnare quattro gol di fila – Danimarca – in due partite consecutive. Record frantumato in due giorni dalla Spagna – 5+5 – di Luis Enrique: “Siamo uno champagne sul punto di essere stappato”, aveva detto il Ct dopo le prime due sterili partite. Buon profeta, auguri alle Furie rosse. Ma, dispiace per l’entertainment, la storia dice che il calcio di chi arriva in cima al mondo è più simile a una partita a scacchi. A un vino fermo e discreto, più che a un prosecchino da happy hour. Carrellata eno-pallonara in arrivo. Cin-cin.

Tuttò iniziò nella terra del Pignoletto, annata 1987, versione frizzante. La guida del Bologna affidata a Gigi Maifredi, giovane allenatore che in tre stagioni porterà i rossoblù dalla Serie B alla Coppa Uefa. Oltre ai risultati colpì il gioco: offensivo e spettacolare, inedito fra le piccole catenacciare all’italiana. Mettiamoci pure l’ex professione di Maifredi – rappresentante commerciale della Veuve Clicquot Ponsardin, prestigiosa maison di Reims – et voilà, l’assist è servito: il “calcio champagne” fa il suo ingresso nella narrativa da stadio e non la abbandona più. Formula riciclata, abusata, sopravvissuta alle vicende sportive del suo stesso ideologo.

Dopo Bologna infatti per Maifredi arriva la chiamata della Juve: sarà un flop, addio dopo una sola stagione e di lì in poi lunga parabola discendente prima del ritiro.

Nel frattempo, in quel 1990/91, saliva in Serie A forse il più grande cultore del gol al centro dell’universo: Zemanlandia, il Foggia dei miracoli, spumeggiante al cubo. La carriera del boemo – proprio oggi di ritorno a casa – è all’insegna della coerenza tattica, foriera di altri acuti di tutto rispetto – Lazio, Lecce, Pescara. Ma nelle big ha mancato il salto di qualità. Senza trofei in bacheca. “Il calcio champagne lo lascio a lui”, gli risponderà, dopo un acceso botta e risposta sulla panchina della Roma, Claudio Ranieri. Futuro re di Leicester, verace e dritto al punto come un rosso dei Castelli.

O della Rioja, comunidad autónoma. La meravigliosa Spagna di Xavi e Iniesta ha vinto il suo unico titolo mondiale a colpi di 1-0 – quattro di fila, dagli ottavi alla finale. Vero, noiosissimi: ma chi se lo ricorda, dopo la dionisiaca sbornia del trionfo – roba da +16 per cento di nascite non pianificate in tutto il paese, ha rivelato uno studio del British Medical Journal. Lo stesso vale per la Grecia. Si dice oggi ad Atene: Iliade, Odissea, Euro 2004. Anche lì, solo 1-0 dai quarti in poi. Solidi e semplici come la miglior retsina di Tessaglia: gli uomini di Rehhagel mica avrebbero potuto compiere l’impresa delle imprese con un ombrellino nel drink.

 

Questi sono gli esempi principi. Ma negli ultimi vent’anni, vincere un grande torneo è sempre stato sinonimo di asciuttezza.

Lo sappiamo bene noi, lassù a Berlino nel 2006 dopo aver sofferto lucidamente ogni partita tranne una – e infatti ammettiamolo: lo show di Mancini ai gironi ci aveva smarrito, quasi spaventato; meno male che poi è arrivata la così familiare agonia austriaca, “la partita più difficile, forse anche della prossima”, cittì dixit. E allo stesso modo il Portogallo campione d’Europa uscente, con parsimonia e pochi gol. Se ci si mette pure il Brasile, futbol bailado per eccellenza, la lezione è presto detta: con Ronaldo il Fenomeno, Rivaldo e Ronaldinho i verdeoro alzarono il Mondiale 2002 segnando non più di due reti a partita (ma subendone una sola) in tutta la fase a eliminazione diretta. Quando poi l’efficientissima Germania avrebbe reso loro pan per focaccia dodici anni più tardi, 1-7 a domicilio, fu un’autentica profanazione. Dell’allegria brasiliana, naturalmente. Ma anche dei tedeschi stessi, che prima e dopo esultarono sempre con un prezioso gol di scarto. Nulla seppe racchiudere lo shock del Mineirazo più di un’altra parabola alcolica: il boccale di birra che disintegra la caipirinha, terribile video virale dell’estate.

 

Così oggi la favoritissima Francia si lecca le ferite. “Non posso vivere senza champagne”, disse Napoleone: “In caso di vittoria lo merito, in caso di sconfitta ne ho bisogno”. Il quantomai bonapartiano Deschamps – generale fortunato, pure conquistatore di Russia – ha spesso e volentieri dato l’idea che sì, la nazionale più forte trionfa senza badare a spese. Epici, quanto ricchi di prodezze e scivoloni, i poker contro Argentina e Croazia nel 2018. Ma nel momento che contava di più, lo stesso Didier ha saputo tenere il Dom Pérignon in ghiaccio: contro il Belgio, forse finale mondiale anticipata, fu un successo strategico da 1-0. Rispolverare la leggerezza della bottiglia buona – difesa a tre con Lenglet, pardon 3-1, anzi fuori ai rigori – può costare caro anche contro l’inferiore ma coriacea Svizzera. Non si scherza, con i gol.

Per questo i 2,81 di media per partita in questo Europeo – record dal 1980 – dovrebbero far preoccupare il controllo qualità della competizione. Anche perché il capocannoniere a sorpresa – 9 centri, Cristiano Ronaldo a 5 non può più inseguire – è l’autorete. Sia chiaro, ancora: per le emozioni da convivio dopo mesi di lockdown, tutto ciò è una manna dal cielo. Ma le bollicine evaporano, un ultimo aneddoto per ricordarlo. “Ibrahim Ba mi è piaciuto molto”, sorrise Berlusconi, allora presidente del Milan, osservando per la prima volta quel terzino biondo ossigenato di fine anni Novanta: “E’ frizzante come un vino francese, direi un Beaujolais Nouveau”. Grande inizio in rossonero, poi sparito dai radar. Ça va sans dire. La tiritera tecnico-tattica-boriosa del quartino fermo e solitario è priva di appeal. Fino a quando, un calice alla volta, qualcuno arriva sul tetto d’Europa. E allora sì: champagne!

Di più su questi argomenti: