La disillusione di van Moer e illusione di Cavendish vanno a braccetto al Tour de France
La vittoria del velocista inglese è la sublimazione di una delle storie più incredibili di rinascita sportiva
Nelle ultime centinaia di metri della quarta tappa della Grande Boucle, la Redon-Fougères, il dispiacere e la contentezza si sono accavallati in centottanta metri. Nessuno sentimento ha prevalso.
Nelle ultime centinaia di metri della quarta tappa del Tour de France 2021, la Redon-Fougères, il dispiacere e la contentezza si sono accavallati, la disillusione e l’illusione si sono dati un cambio degno di un’Americana. Questione di attimi, il tempo di coprire a sessanta all’ora centottanta metri. Di levare gli occhi dall’illusione finita male di Brent van Moer, solo contro tutti alla ricerca di un’improbabile grande beffa ai velocisti, e riposizionarli sulla disillusione svanita, esplosa in un urlo, di Mark Cavendish, primo a braccia alzate sotto lo striscione d’arrivo.
Fosse andata diversamente la volata, probabilmente il dispiacere avrebbe prevalso. Vedere un fuggitivo giungere al traguardo contro ogni pronostico è qualcosa che ancora genera una certa soddisfazione negli appassionati di ciclismo, che riflette la magnificenza della bicicletta, mezzo che permettere mentre lo si utilizza il libero girare non solo del corpo, ma pure del pensiero.
Gli ultimi centottanta metri però hanno permesso che questo non accadesse, che il dispiacere non riuscisse a occupare il proscenio.
Perché la volata di Mark Cavendish è stata pura gioia, ha generato lo stesso sentimento di una fuga andata in porto inaspettatamente, il riflesso della stessa magnificenza della bicicletta. Tutto si è annullato, nulla ha prevalso, un sostanziale pareggio.
Perché l’occasione persa di Brent van Moer è l’occasione ritrovata del velocista inglese, è la sublimazione di una delle storie più incredibili di rinascita sportiva, l’azzeramento di tutta la maligna ironia che si era diffusa quest’inverno alla notizia che la Deceunick-Quick Step aveva ingaggiato il corridore a patto che trovasse uno sponsor che gli pagasse l’ingaggio.
Lo scorso autunno al termine della Gent-Wevelgem Mark Cavendish si era abbandonato alle lacrime annunciando che quella poteva essere “l’ultima gara della mia carriera”. Le cose non andavano bene da alcuni anni. Non vinceva una gara dal 2018, non conquistava una tappa in un grande giro dal 2016. Per una gran parte degli appassionati era un corridore finito, pronto per il ritiro. Era facile crederlo, nelle volate l’inglese non sembrava più lui, come se avesse perso quella maestria di andare veloce che lo aveva condotto a primeggiare in un Mondiale, in una Sanremo, a vincere quindici tappe al Giro d'Italia, trentuno al Tour de France e tre alla Vuelta a España.
Patrick Lefevere, il general manager della Deceuninck-Quick Step, l’aveva avuto in squadra dal 2013 al 2015, aveva gioito quarantaquattro volte con lui e per lui. Non aveva budget per tesserarlo, ma aveva fiducia in lui, sapeva che poteva ancora dare qualcosa al ciclismo. Per questo decise di accettarlo in squadra a patto di un extrabudget.
Non poteva finire in un buco nero la carriera di uno dei più forti velocisti degli ultimi anni. Cav meritava un’altra e un’ultima occasione.
Cavendish non se l’è fatta sfuggire. Ha ripreso ad allenarsi come mai aveva fatto negli ultimi anni, si è preso se stesso sulle spalle e ha provato a salvarsi dalle sabbie mobili nelle quali era caduto. Non poteva non farlo. Ci andava di mezzo l’autostima e la stima di Lefevere. Ha iniziato la stagione con qualche buona prova, l’ha proseguita con qualche piazzamento decoroso e allo stesso tempo deludente. Poi ha vinto. L’ha fatto al Giro di Turchia. Ha ritrovato l’effetto che faceva passare il traguardo per primo, ha riassaporato il gusto del primeggiare, non si è fermato più. Quattro vittorie in Turchia, una in Belgio. Poi la chiamata per il Tour e la certezza che non poteva fallire. Non l’ha fatto. Alla prima occasione utile (poteva essere ieri ma è rimasto attardato dalle cadute) si è ripreso il tempo perso, ha dimostrato a se stesso e chi non ci credeva che ogni tanto la fine può essere prolungata, che qualche anno storto può capitare, che di errori ne aveva commessi, ma che era riuscito a rimediare. Che in fondo non era finito davvero, si era concesso solo una pausa.