Wimbledon, nostalgia. Un'edizione da fine di un mondo
I grandi campioni rimangono in campo per prolungare la loro agonia e la nostra malinconia nel renderci conto che un’epoca sta per concludersi
È l’edizione delle standing ovation, della commozione del pubblico tutto in piedi per applaudire. Non il gioco, ma tutto ciò che gli sta intorno. Il ringraziamento collettivo alla professoressa Sarah Gilbert, la scienziata che ha contribuito alla sperimentazione del vaccino AstraZeneca, l’addio di Carla Suarez Navarro sul campo principale, il quinto set di Andy Murray, i miracoli della disperazione.
Dopo due anni Wimbledon è tornato sì, ma in modalità nostalgica, per un’operazione da quasi fine di un mondo, come se volesse ribadire ad ogni cambio campo ecco ciò che vi abbiamo regalato, ecco cosa stiamo per perdere. Basta guardare i numeri, i volti, le rughe, le scivolate; gli ace, i serve and volley e il punteggio sul tabellone no, quest’anno interessano di meno.
C’è Roger Federer, in campo in uno Slam dopo un anno e mezzo (l’ultima volta è stata agli Australian Open del 2020, pre pandemia), alla sua ventiduesima apparizione sull’erba di Church Road; Andy Murray e ciò che rimane del campione che è stato a quattro anni dalla sua ultima volta in singolo e due protesi alle anche. Lo scozzese quattro mesi fa giocava nei challenger di provincia per illudersi che non fosse ancora finita, oggi è a Londra con una wild card meritata e onorata come meglio non avrebbe potuto, senza pronostici né aspettative da esaudire. Alle domande e allo stupore che lo circondano, lui risponde semplicemente: “Amo questo sport”. Ed è davvero tutto qui, basta e avanza.
Venus Williams (eliminata al secondo turno) si è presentata nel Regno Unito da fresca quarantunenne e un nuovo record da battere consegnato ai posteri, novanta presenze in un torneo del Grande Slam, gli eterni Andreas Seppi, Fernando Verdasco, Kei Nishikori che ha appena festeggiato la sua centesima vittoria in un major.
È l’anno degli amarcord e degli highlander, i pronostici sui probabili campioni questa volta non ci interessano, vincere non è l’unica cosa che conta, come recita la poesia If di Rudyard Kipling all’ingresso del Centrale: “Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori, tua sarà la terra e tutto ciò che è in essa”. Saranno le defezioni e le sconfitte importanti e inaspettate (Rafa Nadal, Dominic Thiem, Stefanos Tsitsipas tra gli uomini Naomi Osaka, Simona Halep e Serena Williams tra le donne) sarà che, almeno in campo maschile, il nome del vincitore questa volta sembra già scritto, il numero uno del mondo Novak Djokovic che senza falsa modestia ha ammesso, a ragione, che la sua partita contro Kevin Anderson, anche lui grande ex, è stata “impeccabile”. Manca la suspance e la competizione, ci consoliamo con le immagini di repertorio, il passato che vorremmo rimanesse presente ancora per un po’. Siamo agli sgoccioli, ce ne stiamo accorgendo, questo luglio londinese ci sta facendo venire voglia di tornare indietro nel tempo per scoprire per esempio che la prima delle venti volte che si sono sfidati Roger Federer e Richard Gasquet è stata nel 2005, sedici anni fa. Non è più solo tennis, è diventato storia.
Arruginiti, senza speranze da pronunciare ad alta voce per paura di apparire ridicoli, i grandi campioni rimangono in campo per prolungare la loro agonia e la nostra malinconia nel renderci conto che un’epoca sta per concludersi. Dopo l’iniziale smarrimento la cattedrale del tennis rimarrà la stessa anche dopo il loro ritiro, è difficile da credere con tutti i pianti e le emozioni di questi giorni. Alla fine del match di secondo turno contro Oscar Otte, subito dopo la standing ovation che gli è stata dedicata, Andy Murray ha detto: “Continuo a giocare per momenti come questo. Perché dovrei rinunciarci. Io mi diverto ancora”. Vincere a volte è sopravvalutato, molto meglio la nostalgia.