Quel romanzo sulle biciclette che Hemingway non ha mai scritto
Sessant'anni fa moriva lo scrittore americano proprio quando Jean Forestier vinceva l'ottava tappa del Tour de France. La passione per i velodromi di Hem e quel nome che sarebbe stato perfetto per il suo progetto mai realizzato
Il 2 luglio 1961, una domenica, mentre nel pomeriggio, in Francia, a St-Etienne, Jean Forestier, trent’anni, lionese, con la maglia celeste dell’Alcyon-Leroux tagliava per primo il traguardo dell’ottava tappa del Tour, la Chalon-sur-Saône-St-Etienne, di 250,5 km, precedendo di due secondi il compagno di Stéphan Lach, della Peugeot-BP, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, di mattina, al pianterreno della sua casa a due piani, a pochi chilometri da Ketchum, Idaho, Ernest Hemingway, ossessionato dalla vita, stremato dalla depressione, sfiancato dagli elettroshock che gli rubavano la memoria, si puntava la canna di un fucile in bocca e premeva il grilletto. Avrebbe compiuto sessantadue anni il 21 luglio.
Jean Forestier sarebbe stato il nome perfetto per il personaggio del romanzo sul ciclismo che Hemingway non scrisse mai. Hemingway aveva conosciuto la bicicletta quando, diciannovenne, salpò da New York per arruolarsi volontario sul fronte europeo della Grande Guerra. Ed era un altro 2 luglio, ma del 1918, quando a Fossalta di Piave raggiunse la prima linea delle trincee inforcando una bicicletta: portava con se cioccolata e sigarette per i soldati italiani. Sei giorni durante un attacco austriaco venne colpito mentre cercava di soccorrere un soldato italiano portandoselo in spalla. Numerose schegge gli si conficcarono nelle gambe e in un piede: ma il corpo del soldato trasportato gli aveva fatto scudo e, probabilmente, gli aveva salvato la vita. Le ferite erano comunque molto serie ed Hemingway pensò di morire. Anzi, per la prima volta, immaginò di accorciare il proprio destino, con una pistola di ordinanza. Non lo fece, venne operato e curato a Milano, all’ospedale della Croce rossa americana, s’innamorò dell’infermiera Agnes.
Dieci anni dopo, nel 1929, quei giorni e quelle storie finirono nel romanzo Addio alle armi. Ci finì anche il ciclista Bartolomeo Aymo, torinese, generoso e tenace protagonista delle corse a tappe degli anni Venti, specialista in piazzamenti e in sfortunate forature: quattro volte sul podio al Giro (2° nel 1922, 3° nel 1921, 1923 e 1928) e due al Tour de France (3° nel 1925 e 1926). Ci finì almeno col suo nome: Hemingway infatti chiama Bartolomeo Aymo l’autista del comando militare a cui viene assegnato Frederic Henry, protagonista del romanzo e alter ego dell’autore.
Nel mezzo, ovvero negli anni del suo soggiorno parigino, a metà degli anni Venti, Hemingway s’innamorò delle biciclette. In particolare del mondo dei velodromi e delle Sei Giorni. In una pagina di Festa mobile, libro postumo che descrive la vita di Hem a Parigi, scrive così di una giornata al Vel d’Hiv: "Dirò del Vélodrome d'Hiver con la sua fumosa luce del pomeriggio e la pista di legno con la forte pendenza sulle curve e il suono frusciante che le gomme facevano sul legno quando passavano i corridori, lo sforzo e le tattiche quando i corridori si arrampicavano e si lanciavano, ciascuno un tutto con la sua bici, dirò della magia del demi-fond, del rumore dei motori con i rulli sulla ruota posteriore che gli entraineurs guidavano, indossando i loro pesanti caschi protettivi e inclinandosi all'indietro nelle ingombranti tute di cuoio, per riparare i corridori che li seguivano dalla resistenza dell'aria, i corridori con i loro caschi più leggeri chini sui manubri, le gambe a girare l'enorme moltiplica e le piccole ruote anteriori a sfiorare il rullo dietro la macchina che gli forniva un riparo contro la resistenza dell'aria dentro il quale pedalare, e i duelli che erano più eccitanti di qualsiasi corsa di cavalli, lo scoppiettare delle motociclette e i corridori gomito a gomito e ruota a ruota su e giù intorno a velocità pazza finché qualcuno non riusciva più a reggere il ritmo e si staccava e il compatto muro d'aria contro il quale era stato riparato lo colpiva".
Hemingway dopo la seconda guerra mondiale tornò a più riprese in Italia, tra il 1948 e la metà degli anni Cinquanta. Soggiornò spesso a Venezia, e da qui si muoveva a caccia nella laguna di Caorle, oppure sulle Dolomiti, a Cortina. Il 2 giugno 1949 una coincidenza. Mentre insieme ad amici stava per andare a pesca di trote sul torrente Avisio, in val di Fassa, la sua Buick venne fermata: la strada era chiusa al traffico, stava passando l’undicesima tappa del Giro d’Italia, la Bassano del Grappa-Bolzano. Fu probabilmente solo un attimo, ma Hemingway osservò sfrecciare Fausto Coppi, in fuga. Rolle, Pordoi, Gardena: una cavalcata solitaria. Un’anticipazione del capolavoro che avebbe portato a compimento una settimana dopo nella mitica Cuneo-Pinerolo. Pare che anni dopo, ricordando quell’episodio – due grandi del Novecento le cui vite si sfiorano per un attimo – Hemingway affermasse: "Questo è lo sport puro e vero. Fanno una fatica terribile per ore e ore, quasi non riesco a crederci che vadano su da soli per quelle salite".
Anche Jean Forestier incontrò Fausto Coppi. Fu alla Parigi-Roubaix del 1955. C’era una fuga a cinque: due mostri sacri, Coppi e Bobet (BP), e poi altri tre francesi: Bernard Gauthier della Mercier, Gilbert Scodellier della Perle e, appunto, Forestier, che all’epoca correva per la Follis. A 25 km dall’arrivo, Forestier attaccò. Gli altri si guardarono, si marcarono: soprattutto Coppi non fece una piega e, ovviamente, Bobet neppure. Forestier prese il largo. Quando Bobet con l’aiuto di Scodeller finalmente decise di tirare per cercare di riportarsi sul fuggitivo, ormai era troppo tardi. Forestier entrò nel velodromo di Roubaix con 15 secondi di vantaggio. Gli bastarono. Tagliò il traguardo e poi si gettò incredulo e stremato sull’erba del prato al centro del velodromo. L’anno prima, è vero, aveva vinto il Giro di Romandia e una tappa al Tour de France, ma trionfare a Roubaix lasciandosi alle spalle Coppi e Bobet non l’avrebbe mai immaginato.
Ma Forestier non fu una meteora. Dopo la vittoria nell’Enfer du Nord del 1955, l’anno dopo concesse un altro prestigioso bis: primo al Giro delle Fiandre del 1956, sempre anticipando di un soffio i favoriti, che questa volta erano Stan Ockers e Rik Van Steenbergen.
Al Tour del 1957 Forestier vinse la cronometro a squadre alla terza tappa e poi, dall’ottava alla decima, indossò per tre giorni la maglia gialla, per poi cederla ad Anquetil, che quell’anno avrebbe vinto la sua prima Grande Boucle. A Forestier toccò però il merito di vincere la maglia verde della classifica a punti.
Quella del 2 luglio 1961 a St-Etienne fu la quarta e ultima tappa vinta al Tour da Forestier: un palmarès di tutto rispetto, a cui si aggiunge una seconda vittoria in classifica generale al Giro di Romandia (1957), un Criterium National (1957), un successo al Tour de Var (1962). Oggi, ottantun anni il prossimo 7 ottobre, è il più vecchio dei vincitori della Parigi-Roubaix e del Giro delle Fiandre.
Sono abbastanza sicuro che il suo bel nome, Jean Forestier, sarebbe piaciuto a Hemingway per il romanzo che non scrisse mai