Il Foglio sportivo
Il Tour non dimezza le montagne
Le discese sono tornate nei chilometri finali delle tappe montane della Grande Boucle. Solo tre frazioni, tra Alpi e Pirenei, si concluderanno in quota. E questa è una buona notizia
Quel giorno Fausto Coppi capì di essere rimasto solo quando smise di sentire il respiro affannato di Jean Robic alle sue spalle. Era da qualche minuto che questo aveva iniziato a essere più intenso, più veloce, più disperato. Quando nelle sue orecchie ronzò il silenzio non gli servì neppure voltarsi, sapeva benissimo che non avrebbe visto nessuno, forse soltanto una macchia di colore in lontananza. Ciò lo rincuorò, fece vorticare ancora più velocemente quelle sue gambe lunghissime, mentre il corpo sembrava, al solito, immobile in quella virgola perfetta che sembrava essere progettata per essere una naturale continuazione della bicicletta. Mancavano pochi chilometri al traguardo. La strada continuava a salire, attorno a lui un nulla di prati e di rocce. Arrivò in cima nella solitudine di poche case e qualche albergo, solo come tante altre volte, eppure come mai prima. Perché lì alla sommità dell’Alpe d’Huez c’aveva trovato uno striscione d’arrivo. Uno vero di quelli che quando li si attraversa ci si ferma, mica come quelli un po’ raffazzonati degli traguardi intermedi o dei gran premi della montagna. C’erano pure le transenne a bordo strada e una tribunetta, quella solita per i notabili. Si guardò attorno, un po’ sorpreso e un po’ smarrito. Gli parve tutto così strano che si fermò a fissare qualche decina di secondi il panorama.
Era il 4 luglio del 1952 quando il Tour de France scoprì l’effetto che faceva vedere una tappa che terminava in cima a una montagna. Certo prima c’erano stati arrivi in cima a piccoli strappi, in paesi alpini, ma mai a oltre 1.800 metri sul livello del mare. Soprattutto quella era la prima volta che un monte entrava nel percorso della Grande Boucle dimezzato.
Fausto Coppi fu avanguardista di una cosa mai accaduta prima, pioniere di un modo di intendere la montagna in modo univoco: solo ascesionale.
Non poteva essere altrimenti, almeno quel giorno. Per giungere all’Alpe d’Huez c’era solo quella strada, quella che partiva da Le Bourg-d’Oisans. Le altre le avrebbero realizzate nei decenni a seguire. E non poteva essere altrimenti perché su all’Alpe il Tour non poteva non andarci. Georges Rajon, uno degli albergatori che avevano costruito le prime attività ricettive attorno agli 80 edifici (per lo più stalle) del borgo, e contribuito a costruire il primo impianto di risalita per attirare gli sciatori (era il 1936), convinse tutti gli altri imprenditori della zona a mettere mano al portafogli portare avere la miglior brochure turistica di Francia: il Tour. Fu un successo incredibile, soprattutto per gli affari della località. Ma anche per il Tour, lodato per l’idea.
Il Giro d’Italia all’arrivo in salita c’era già arrivato nel 1936 (e poi sino al 1939), ma era una cronoscalata: Rieti-Terminillo. Una località d’arrivo non casuale. Il Terminillo era un grande pallino di Benito Mussolini, a tal punto da fare in modo di convincere tutti (dai giornali, agli eventi sportivi) di trovare il modo di permettere alla montagna laziale di sfruttare il grande potenziale turistico.
Quello del 1952 era un Tour che il patron della corsa, Jacques Goddet, aveva tracciato “in modo avveniristico”, ma che non si sarebbe dovuto ripetere. E infatti gli arrivi in salita sparirono dal Tour sino al 1961, l’anno nel quale Félix Lévitan lo iniziò ad affiancare nell’organizzazione, prima di farlo anche alla direzione l’anno successivo. Goddet veniva dalla scuola di Henri Desgrange, il creatore e primo direttore della Grande Boucle, e portava avanti la convinzione che “un corridore per vincere il Tour deve essere il migliore ovunque: in pianura, a cronometro, in salita, in discesa. Le salite senza discese non esistono. Non possono esistere nemmeno al Tour”, disse nel 1953 a chi gli chiedeva perché non avesse riproposto un arrivo in quota. Solo l’affiancamento di Lévitan fece sì che la corsa tornasse a far tappa in cima a un monte: Superbagnères. Vinse Imerio Massignan.
La convinzione di Desgrange e Goddet fu spazzata via con il passare del tempo, a tal punto che dagli anni Novanta in poi si assistette a una dittatura dell’arrivo in salita. I paesi a valle scomparvero dalle sedi di arrivo delle corse a tappe, diventarono spettatori parziali di quello che sarebbe accaduto centinaia di metri più in alto. La montagna dimezzata divenne una normalità, schiava dell’ossessione che non ci potesse essere spettacolo senza un traguardo da raggiungere con il naso all’insù.
Il Tour quest’anno ha provato a emanciparsi da questo luogo comune. Lo farà da sabato 3 luglio, dall’ottava tappa, quella che porta a Le Grand-Bornand. Delle otto tappe montane solo tre termineranno in quota (Tignes, Col du Porter e Luz Ardiden). Il resto sarà terreno di caccia nel quale le abilità in discesa non saranno disprezzate e accantonate, ma potranno essere messe sul piatto della bilancia del risultato finale, per rafforzare quanto creato a salire o per provare in qualche modo a rimediare.
La discesa in fondo è una seconda (mezza) possibilità. Una sorta di democratizzazione del ciclismo montano. Soprattutto una dilatazione del dominio della lotta e dell’immaginazione, quindi del piacere. Un terreno dell’incertezza dove tutto (o quasi) può essere messo in discussione. Non snatura la salita, la completa. La rende ancor più affascinante.