L'arte di ascoltare. Il segreto della Danimarca è l'allenatore
Morten Glinvad, giornalista sportivo per TV 2 e biografo del ct danese ci racconta come Kasper Hjulmand è riuscito a costruire un nazionale capace di arrivare ai quarti nonostante quanto capitato a Christian Eriksen
Undici chilometri separano il piccolo stadio di Hvidovre dal Parken Stadion di Copenaghen, teatro delle gare casalinghe della Danimarca. Nel meno celebre impianto dell’omonima cittadina a sud-ovest della capitale danese, il 20 luglio del 2009 il centrocampista del Nordsjaelland Jonathan Richter venne colpito da un fulmine durante un’amichevole. Richter ebbe un arresto cardiaco e per più di dieci giorni fu tenuto in coma farmacologico. Al risveglio non presentava nessun danno cerebrale, ma qualche giorno dopo fu necessaria l’amputazione della sua gamba sinistra. Oggi Richter è un dirigente sportivo e un giocatore di basket in carrozzina.
Quel 20 luglio 2009 sulla panchina della Nordsjaelland sedeva anche Kasper Hjulmand, attuale commissario tecnico della Danimarca e allora assistente di Morten Wieghorst. Adesso che i ruoli tra i due allenatori si sono invertiti, entrambi si sono trovati a vivere un’altra vicenda drammatica, come quella del malore di Christian Eriksen. “Hanno messo in pratica quanto imparato in quell’occasione, cercando la massima empatia con i calciatori, affinché potessero esprimere le loro emozioni, senza tenersi dentro nulla. Kasper Hjulmand è il primo a non nascondere la sua emotività al gruppo, ad anteporre la propria umanità. Ritiene che l’autenticità sia lo strumento fondamentale per la leadership” racconta Morten Glinvad, giornalista sportivo per TV 2 e biografo del ct danese. Molti calciatori della nazionale danese, tra cui Kjaer e Schmeichel, hanno elogiato pubblicamente il ct, spiegando di aver trovato in lui un riferimento e un amico.
Glinvad ha iniziato a seguire Hjulmand nel 2017, perché interessato “dall’idea di raccontare un periodo in cui lui stesso stava cercando di capire che direzione avrebbe preso la sua carriera”. Reduce dalla prima, non esaltante, esperienza da tecnico all’estero - al Mainz per sostituire Tuchel - Hjulmand aveva accettato di tornare al Nordsjaelland, piccola squadra della città di Farum dove lo stadio dal 2016 si chiama “Right to Dream”, come il progetto di academy in Ghana sviluppato dal proprietario del club.
E quella del sogno è probabilmente la dimensione adeguata per provare a spiegare il calcio di Hjulmand, primo, e sin qui unico, allenatore a portare il Nordsjaelland alla vittoria del campionato danese (nel 2012) e poi a giocare la Champions League. Tra i suoi “Sogni calcistici” - come il titolo del libro di Glinvad su di lui - c’è quello di operare una sintesi fra le differenti visioni del calcio in Danimarca e costruire una nazionale che rappresenti il Paese. Per farlo al meglio è ricorso a qualcosa di simile a delle consultazioni presidenziali, rivela Glinvad: “Il dibattito è incentrato su una storica dicotomia su come la nazionale debba giocare. Negli anni 80 avevamo una grande squadra che proponeva un bel calcio ma non vinse nulla. All’epoca si parlava della Danimarca come dei “brasiliani del Nord”, e c’era grande differenza con il tipico gioco di Svezia e Norvegia, più fisico, difensivo e organizzato. Nel 1992 invece vincemmo l’Europeo con l’approccio pragmatico tipico del calcio scandinavo. Hjulmand credo voglia costruire un ponte per superare le divisioni. Per diventare un buon ct ha provato a comprendere al meglio l’identità del Paese e si è preparato incontrando personalità politiche, artisti, cantanti e imprenditori danesi. Ha capito che si tratta di una nazione in cui ci si rapporta sempre alla pari e che non esiste nessuna ragione per cui il ct debba mettersi al di sopra degli altri”.
Ascoltare e approfondire per poter capire. È quanto Hjulmand ha fatto al suo ritorno al Nordsjaelland a fine 2015 per relazionarsi al talento, ma soprattutto al carattere spinoso, di Emre Mor, fantasista di origini turche e grande promessa in quel momento del calcio europeo: "Andò a visitare la famiglia perché voleva conoscere le sue origini; volle capire qualcosa in più su di lui, sulla sua personalità, sul perché fosse così emotivo e a volte indisciplinato". Non a caso in quei mesi Emre Mor, cresciuto tra Brønshoj e Tingbjerg, zone complicate nella periferia di Copenaghen, note per la presenza di gang violente, fece vedere il meglio del suo repertorio: Terim lo portò a Euro 2016 e nella stessa estate il Borussia Dortmund staccò un assegno da 13 milioni di euro.
Il principale sogno di Hjulmand è, dunque, quello di riuscire a coniugare il bel gioco con i risultati in nazionale. Fin qui ci sta riuscendo e nel frattempo si gode un’ondata di popolarità per certi versi inattesa. Sia perché da giocatore non era riuscito a raggiungere i livelli più alti del calcio danese, sia perché da ct è subentrato a Age Hareide, molto apprezzato in patria per i risultati che era riuscito a ottenere. La Federazione ha però scelto un cambio di paradigma quando ad Hareide, tra i massimi filosofi danesi del pragmatismo calcistico, mancavano ancora dodici mesi di contratto, annunciando l’accordo con Hjulmand a partire dall’anno successivo. Questo Europeo, dunque, la Danimarca avrebbe dovuto disputarlo con un altro tecnico in panchina, ma la pandemia e la volontà del presidente federale Jesper Møller hanno spinto Hjulmand alla guida della squadra per la rassegna continentale: “La sua reputazione è cambiata clamorosamente grazie all’Europeo. Prima era un allenatore rispettato, soprattutto tra gli addetti ai lavori, ora è una persona rispettata da tutto il Paese. Tutti, interessati al calcio o meno, hanno assistito alla tragedia di Eriksen, cercando poi di capire quale sarebbe stata la reazione della squadra. Il modo in cui Hjulmand ha gestito la situazione ha catturato l’attenzione e tutti sono rimasti affascinati dalla sua personalità” spiega Glinvad.