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Jorginho non tira mai

Giuseppe Pastore

Il centrocampista azzurro è l’antidoto al calcio da Youtube, va ammirato con attenzione  

Ancora oggi non mi abbandona il ricordo di una frase intercettata sugli spalti di San Siro nelle more della penosa Italia-Svezia 0-0, 13 novembre 2017, scempio finale della Nazionale di Tavecchio&Ventura davanti a 70mila testimoni, molti dei quali digiuni di calcio e assai probabilmente imbucati, gratificati poche ore prima di un biglietto omaggio dalla loro ditta senza preoccuparsi che capissero davvero qualcosa di pallone (il milanese è così, l’ansioso entusiasmo di partecipare a un qualsivoglia Evento prescinde dalla sua effettiva preparazione a quell’Evento). Quest’uomo sui 40 anni dava in escandescenze ogni volta che Jorginho prendeva palla e si avvicinava all’area svedese, e urlava: “Tira! TIRA! Ma perché non tira mai?”. Rivelava così di non avere mai visto una partita di Jorginho in vita sua.

Jorginho non tira mai. Ha una qualità formale e un controllo della partita assoluti, che non s’imbastardiscono mai in una soluzione dalla distanza o in un’apertura parabolica buona per una compilation su Youtube. Anche i due minuti di best skills della mostruosa performance contro il Belgio afferrano solo in piccola parte il mistero dei suoi 70 passaggi riusciti su 71 per tacere dei recuperi, degli intercetti e delle letture sempre indovinate sui vari Witsel e De Bruyne. Gocce di Chanel su una Marilyn Monroe di cui intravediamo solo frammenti di pelle.

Il pensiero di Jorginho fa a cazzotti con il calcio iper-parcellizzato di oggi, obbliga a fare una decina di passi indietro come le Nozze di Cana del Veronese, il dipinto esposto al Louvre e grande sei metri per dieci, di cui non si può ammirare l’enormità con il naso attaccato alla tela.

Veronese lo è anche Jorginho, o almeno è lì che si è rivelato facendo irruzione in serie A a 23 anni, nemmeno giovanissimo. L’età di Jorginho è un altro degli inganni da pittore rinascimentale seminati nella sua parabola: all’inizio la saggezza anti-spettacolare con cui interpreta il ruolo lo rendeva più maturo di quel che era, mentre adesso gli occasionali da Nazionale sgranano gli occhi alla scoperta che sta disputando il suo primo grande torneo in azzurro solo a 29 anni. Colpa del governo precedente, come si suol dire: Ventura dichiarò apertamente che nella sua idea di Italia non c’era posto per un “metodista”, salvo poi mandarlo allo sbaraglio nell’Italia-Svezia di cui sopra, faro cieco di una squadra sparpagliata come un mucchio di cornflake in una tazza di latte. Invece Mancini gli ha affidato subito le chiavi del monolocale da cui dirige le operazioni a centrocampo, separandosene solo per l’ultimo inutile quarto d’ora di Italia-Galles: e così la nostra linea mediana è diventata la più forte d’Europa in un tempo incredibilmente breve, all’incirca lo stesso che è servito a Thomas Tuchel per trasformare la nona classificata della Premier League nella squadra campione d’Europa. La crescita verticale degli Azzurri e dei Blues pare avere lo stesso fattore: Jorge Luiz Frello Filho.

 

Comunque vada durerà

Comunque vada a finire la semifinale, il ciclo dell’Italia di Mancini è nei fatti già aperto: la primavera esplosa tanto clamorosamente in queste settimane di risveglio di sensi e di bellezza promette di durare anni. Ma Italia-Spagna può essere – circostanza così rara nel calcio per Nazionali – la consacrazione nei risultati di un’idea ambiziosa e meravigliosa: ciò che per i nostri avversari fu il quarto di finale di Euro 2008, affrontato con mille cautele contro gli allora campioni del mondo e poi vinto con merito ai rigori, un risultato che servì da trampolino di lancio per vincere tutto, scrollandosi dalle spalle la polvere di sfiga cronica che ricopriva una Nazionale che non combinava niente di buono dagli anni Sessanta. In pochi ricordano che in quella Spagna 2008 regnava in mezzo al campo un altro oriundo brasiliano di passo lento e cervello finissimo, Marcos Senna, regista del Villarreal che per tutto il torneo dettò magnificamente i tempi delle Furie Rosse di Aragones. I suoi satelliti si chiamavano Xavi, Iniesta, David Silva: fu uno dei migliori giocatori di quell’Europeo prima di sparire dalla circolazione per raggiunti limiti d’età (aveva già 32 anni), sostituito dall’impetuosa ascesa del giovane pivote Busquets. Questi giocatori, silenziosi, pazienti e persistenti come monaci benedettini, sono l’antidoto al chiasso del calcio liofilizzato in due minuti di highlights. Per notarli bisogna guardare attentamente, se necessario camminando all’indietro. Ma a quel punto, disvelata la loro bellezza, possono persino vincere il Pallone d’Oro.

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