anche tu, Matteo
Il primo italiano in finale a Wimbledon. Berrettini non è lì per caso
Da underdog ad avversario da battere, con le sue vittorie sull’erba ha già riscritto parte della storia di questo sport per il nostro paese
Eravamo impauriti, impreparati, con la faccia da “che ci faccio io qui?”, pochi punti di riferimento. Dopo quarant’anni di briciole, con qualche lampo in rosso, il tennis da top player sembrava non fare proprio per noi. Terraioli, sempre sulla difensiva, fuori dalla linea di fondocampo a remare, remare, remare, Wimbledon, l’erba in generale per gli azzurri si fermava a Nicola Pietrangeli e all’epoca del bianco e nero.
E poi, finalmente, è arrivato Matteo Berrettini, che ha messo i piedi dentro il campo, imposto il proprio gioco, servizio e dritto, pochi scambi, tutti cercando di essere, come dice lui stesso “esplosivo e potente”. Assumersi rischi e responsabilità? Yes, we can.
Tutto era cominciato con Marco Cecchinato in semifinale al Roland Garros nel 2018, l’avvio di un circolo virtuoso di vittorie ma soprattutto di fiducia. Subito dopo il torneo di Parigi Cecchinato aveva detto: “Abbiamo capito che c’è spazio anche per noi. Prima non avevamo nemmeno il coraggio di pensarlo”. Tre anni fa Matteo Berrettini era tra i primi cinquanta del mondo, aveva vinto il torneo di Gstaad e sembrava tutto grasso che cola. Il ventiseienne romano, da piccolo, rispondeva wow ogni volta che il suo storico coach Vincenzo Santopadre gli diceva di essere stato numero 100 al mondo in carriera, gli sembrava il sogno più grande che potesse permettersi, anche io, anche io, gli diceva. Oggi, dieci anni dopo lo sguardo di meraviglia per un ranking a tripla cifra, Berrettini è il numero tre della race Atp, significa che in questa stagione soltanto due giocatori hanno fatto meglio di lui, Novak Djokovic e Stefanos Tsitsipas. “Anche tu, Matteo. Anche tu”.
Domenica pomeriggio Matteo Berrettini giocherà la prima finale italiana nella storia di Wimbledon, inutile fermarsi a cercare i precedenti, non ci sono, non esistono, nel torneo più prestigioso del mondo così lontano un azzurro non era mai arrivato. “Non ho parole, mi serviranno un paio di ore per realizzare quello che è successo”, ha detto il numero sette del mondo subito dopo aver battuto Hubert Hurcakz in quattro set, 6-3 6-0 6-7 6-4. Cento e un ace in tutto il torneo, un solo doppio fallo nella partita, forse un tie break di troppo, il braccio che trema prima di colpire uno smash, la barba sempre più incolta dopo due settimane a Church Road (anche Borg, per scaramanzia non la tagliava mai) e poi alla fine l’urlo di liberazione.
Nel 2019, la sera dopo aver perso la semifinale degli Us Open contro Rafa Nadal, tornato in albergo, Berrettini si è guardato allo specchio e si è detto: “Quando le mie armi funzionano, quando la testa mi accompagna, posso fare male, sono davvero pericoloso”. Dopo quella partita, ha cominciato a convincersi di non essere lì per caso. Fino a due anni fa, quando scendeva in campo al terzo o quarto turno, era lo sfavorito, il giocatore contro cui puntare. “Adesso non è più così”, ha detto in un’intervista su Espn. “Le persone intorno a me oggi si aspettano che io vinca. Io mi aspetto di vincere. È cambiato tutto nel giro di due anni. Da underdog ad avversario da battere, in questi giorni Berrettini era tra i titoli dei principali dei quotidiani di tutto il mondo alla voce sport. Con undici vittorie consecutive sull’erba, prima al Queen’s oggi a Wimbledon, ha già riscritto la storia di questo sport, la percezione che gli altri hanno dei tennisti italiani, la percezione che i tennisti avevano di se stessi, non più una vita da mediani, sempre lì nel mezzo, a rosicchiare spazio, ma fuoriclasse, campioni tra i campioni, un passo dietro a nessuno. La Figc ha invitato il tennista alla finale di Wembley per Italia-Inghilterra, altra finale a pochi chilometri di distanza. Matteo non ha ancora risposto, può darsi che abbia qualcosa di meglio da fare.