Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza
Il morso della fame
L'Italia è serena, gli inglesi no. È questa la nostra forza. Possiamo anche perdere, anche se la sconfitta è un dolore che ci farebbe parecchio male. Ma la squadra di Southgate non ha via di scampo: deve vincere
Siamo in finale, come bambini sul muretto, a piedi penzoloni, che si riposano sudati prima della nuova partita. Gli inglesi ci guardano con un po’ di quella preoccupazione che si riserva a chi ci fa paura. Noi siamo sereni, loro no. È questa la nostra forza. Possiamo anche perdere, anche se la sconfitta è un dolore che ci farebbe parecchio male, ma gli inglesi non hanno via di scampo: devono vincere. Dicono di avere inventato il calcio e poi si sono accontentati per decenni di guardare il pallone salire sui campanili, sommità interminabili sopra partite puramente agonistiche. Prima che arrivasse la Premier, il campionato più ricco del mondo e il più intenso, veloce. Ma a renderlo tale sono stati i soldi degli emiri, dei russi, degli americani, di qualche asiatico. Il cambiamento radicale del gioco ha avuto come maestri allenatori alla Guardiola, alla Conte, alla Mancini, alla Mourinho, alla Ancelotti, alla Ranieri, alla Klopp, in ordine sparso, anche se il primo fu Wenger, che trasformò la noia in euforia e poi in boria e poca in gloria, con il suo Arsenal e prima di lui uno scozzese di nome Ferguson. Nessun inglese tra gli inglesi che desse l’impressione di portare qualcosa di diverso. Fino all’elegante Southgate, nativo di Watford, una carriera spesa solo in Inghilterra dove da calciatore con Crystal Palace, Aston Villa e Middlesbrough, ha vinto di la miseria due coppe di Lega, l’equivalente di un piatto d’insalata. Ma fin da subito è parso un bravo allenatore, tanto da portarsi in fretta sulla panchina della Nazionale dei Tre Leoni con cui ha conquistato un quarto posto agli ultimi Mondiali.
La sua Inghilterra gioca un calcio veloce, di appoggio alle due punte, lo scattoso Sterling e il monumentale Kane. L’Italia si comporta all’opposto – visto che il proprio centravanti si è quasi defilato verso sera – fidandosi del palleggio quando può e della tradizione quando deve. Contro la Spagna ha guardato gli avversari dall’alto, come se gli occhi di Mancini fossero un drone. A un certo punto ha scelto di aspettare per smettere di correre a vuoto davanti agli spagnoli che si passavano compiaciuti la palla pazza che strumpallazza. Ci siamo comportati da persone intelligenti, di quelle che non perdono il filo del discorso nemmeno di fronte all’interlocutore più erudito. Luis Enrique ci guardava con un velo di una tristezza che faceva commuovere, grande uomo, e noi spietati, certi di noi stessi. Adesso ci resta l’ultima schermaglia. Gli inglesi saranno in tanti, rumorosi, a bocca aperta. Non hanno scelta: riempire quella bocca rimasta vuota per quasi sessant’anni. Il morso della fame potrebbe provocargli un brutto scherzo.