C'era una volta l'Italia del Catenaccio
Mancini è riuscito ad archiviare quasi un secolo di storia calcistica azzurra. E per paradosso a decidere la finale di Euro 2020 contro l'Inghilterra è stato un difensore, Leonardo Bonucci
Sugli spalti dell’Amsterdam Arena, il 29 giugno 2000, uno striscione azzurro invitava alla strenua resistenza (un uomo in meno) contro gli olandesi di casa, nella semifinale di un Europeo poi sfuggito come sabbia dalle dita. “Catenaccio” e niente più, si vantava quel lenzuolo brandito: l’indole nazionale cara a Gianni Brera, il genius loci di un Paese abituato prima a non prenderle che a progettare la maniera di rispondere, si sono dissolti progressivamente nei tre anni di reggenza Mancini, fino a raggiungere il culmine ieri sera con la coppa Delaunay tra le mani. Lo scrittore lombardo avrebbe inorridito alla fitta rete di micropassaggi, anche laterali o arretrati, che per interi minuti ha nascosto il pallone agli inglesi: "Non si vince un mondiale senza storia", scriveva al Bernabeu nell’82. E "so che è bello ed esaltante vedere uno squadrone prendere subito in mano le redini del gioco, ma la sola valida forza degli italiani risiede nell'invitare gli avversari a sbilanciarsi", catechizzava dieci anni più tardi l’arrivo di Arrigo Sacchi quale selezionatore.
Roberto Mancini, esteta fin da giocatore, probabilmente non gli sarebbe piaciuto da tecnico: escluso il pari beffardo con la Germania nel ‘96, nemmeno Sacchi si era spinto più in là nella ricerca del risultato attraverso il gioco. Passando attraverso la Spagna degli ultimi quindici anni, l’Italia che fu di Antonio Conte si è rivista, in finale, solo nel lancio perfetto di Bonucci per Berardi a scavalcare le cabine di regia. Il gioco imposto sotto la pioggia nel panneggio azzurro, damascato e rinascimentale, ha rimesso le cose a posto dopo il logorante soffocamento spagnolo della semifinale, quando questa Italia è stata costretta a praticare un sistema operativo che pare non conoscere più. I difensori italiani, oggi, recuperano metri di campo all’avversario, coprono l’intera fascia, sono registi aggiunti e magari sbagliano qualche diagonale di posizione, quasi un’eresia.
Ove il centravanti latita, muovono le torri: il Bonucci di Wembley, mutatis mutandis, sta più allo Scirea costruttore del 1978-82 (pronto ad allargarsi per dettare il passaggio) che al Materazzi di Berlino. E verso i Mondiali si protende il giovane Bastoni, colonna dell’Inter nel lanciare in modo perfetto da sinistra, come contro il Galles. Il gol di Londra è stato sgraffignato da fermo, ma quanto puntiglio tra la spizzata di Cristante, il rigore giustamente invocato per un secondo da Chiellini e l’incredibile palo di testa del mini Verratti! Il resto è tutta costruzione dal basso - famigerata con Pirlo trainer - capace di soffrire il pressing altissimo, ma di uscirne talmente bene da restare in possesso per due minuti senza soluzione di continuità. Ad alcuni risulterà lezioso, ma era l’unico modo per procurarsi occasioni da gol, senza voler entrare in porta con la sfera: il giro-palla stile basket ha portato Cristante a essere il più avanzato nelle ripartenze, con Chiesa falso nueve quando è uscito uno stremato Immobile, nella versione coverciana del “mio centravanti è lo spazio” (Guardiola), visto che in area Mancini porta un numero di giocatori inferiore agli avversari.
C’è chi sostiene che una squadra senza fuoriclasse di movimento fa diventare fuoriclasse il gruppo: ma come definire altrimenti il monumentale Verratti, i due Bronzi di Riace in mezzo alla difesa o l’immarcabile Chiesa, variabile impazzita agli schemi, dal valore di un Bruno Conti e impulso alle uniche azioni personali? Il ct inglese Southgate ha azzeccato la mossa Trippier, avanzando l’esterno dell’Atletico e lo speculare Shaw per mandare in crisi Emerson e Di Lorenzo: il primo non all’altezza dello scintillante Spinazzola, il secondo irretito da Mount. Sbavature che non hanno fatto perdere la testa agli azzurri, consci che spettava agli altri trovare contromisure a chi detiene il pallino: di qui le mostruose prestazioni individuali di Rice e Phillips, concausa dell’appannamento di Barella, il migliore per buona parte del torneo e colui che, in Nations League lo scorso settembre, nella vittoria contro la “giochista” Olanda siglò la risalita definitiva dall’inferno della gestione Ventura (chi ricorda Jorginho allo sbaraglio nella sua prima contro la Svezia?). Se questo mese non ha messo in mostra chissà quali avanguardie - brillante Danimarca, solita Spagna - 34 partite consecutive senza sconfitte dicono che oltre al clima scanzonato, amicale, “doriano” del gruppo c’è altra solidità: nonostante la benedetta mutazione genetica, la mela non cade mai troppo lontana dall’albero.