Il Foglio sportivo
Com'è profondo il Mancio
Storia, filosofia e mistero di una vittoria inaspettata da tutti tranne che da lui, il ct senza smania di vincere
La vittoria sportiva è un mistero difficile da afferrare. Nessuno può spiegarne causalmente tutti i meccanismi che guidano al suo raggiungimento, nessuno di chi la ottiene può trattenerne gli istanti della gioia, tutti però ne vedono e ne misurano gli effetti provocati. La passione di tifosi e spettatori riposa su questo velo quasi impenetrabile agli occhi della mente. È però così che dobbiamo accostarci a un grande successo sportivo come quello di domenica 11 luglio, specie se ottenuto nello sport più praticato e popolare del mondo, ovvero come a una grande costruzione dello Spirito. Riposti entusiasmi, cori, celebrazioni, ricevimenti, assembramenti e polemiche sugli assembramenti, è importante spendere qualche riflessione sui caratteri profondi della vittoria ottenuta a Wembley dalla Nazionale guidata da Roberto Mancini. Per restituirle la profondità umana e spirituale che merita, e per meglio apprezzarne valore e gloria, è necessario analizzare il “quando” e il “come” della sua maturazione, proiettando il successo azzurro su due sfondi, uno di tipo storico e uno filosofico.
Partiamo dalla collocazione storica. Interpretare il successo agli Europei 2020 solo nell’ottica del riscatto dall’onta della mancata qualificazione alla fase finale de Mondiali russi del 2018 (come già avvenne negli Europei del 1968 dopo l’umiliazione “nordcoreana” del 1966) è corretto, ma è una valutazione dal respiro troppo corto. La vittoria ottenuta domenica a Londra è più estesa, ha un impatto molto più profondo, perché chiude sul piano simbolico e materiale il “decennio nero” dello sport italiano (si badi, non solo del calcio italiano, dello sport italiano), il momento più basso mai toccato in un secolo e oltre di storia in cui l’Italia ha saputo guadagnarsi una centralità sportiva a livello mondiale proprio a suon di vittorie, e di effetti suscitati da queste vittorie. Nonostante l’agonismo sia stato rimosso dal linguaggio pubblico dell’Italia repubblicana in quanto retaggio fascista, l’Italia ha una cultura sportiva globalmente apprezzata e riconosciuta proprio nella misura in cui ha saputo conquistare vittorie in un numero molto esteso di discipline. È proprio questo il sentiero interrotto: tra il 2011 e il 2020 (tenendo fuori da questo quadro lo sport olimpico) la rarefazione di grandi successi internazionali ha coinvolto quasi tutte le dimensioni più rilevanti del nostro sport: calcio e basket, tanto con i club quanto con le Nazionali, la Ferrari, Valentino Rossi, l’atletica leggera, in buona misura il ciclismo (con l’eccezione del Tour de France vinto da Nibali nel 2014). Anche il volley, che pure ha conquistato coppe internazionali a livello di club, non ha ottenuto vittorie con le proprie squadre nazionali. Un tracollo agonistico inaudito, anche se non particolarmente avvertito nell’interrogazione delle sue cause. In questa coltre nera da cui non filtravano particolari speranze di riscatto, un declino spiegabile non solo in termini sportivi ma anche con varie ragioni economiche, demografiche e sociologiche, è scaturita una vittoria inattesa (tranne che per il suo principale artefice). Il futuro potrà dirci con esattezza circa la fondatezza di questa tesi, ma è probabile che l’esperienza tragica della pandemia, che l’Italia ha sperimentato prima di altre nazioni e con un’intensità molto più forte sul piano emotivo e materiale, possa aver inciso in maniera molto forte nella motivazione agonistica, in un momento di allineamento astrale in cui dal tennis al basket all’atletica per lo sport italiano si stanno delineando prospettive impensabili solo un anno fa. L’euforia del momento non deve però farci pensare a una completa inversione del declino rispetto ai fasti novecenteschi e di inizio nuovo millennio (basti pensare al fatto che mentre festeggiamo l’Italia vincente, i principali club di calcio stranieri stanno proseguendo la spoliazione di talenti della nostra Serie A), ma a una sua misura più accettabile, degna e gioiosa rispetto al grado semizero di vittorie ed emozioni vissute nello scorso decennio.
Veniamo ora al “come” della vittoria, e alla sua dimensione filosofica. C’è un aggettivo che in queste settimane è stato largamente utilizzato per descrivere il ruolo svolto da Mancini nell’impresa azzurra: visionario. Sin dal primo momento del suo insediamento, nella notte nera prima evocata, Roberto Mancini ha parlato di vittoria degli Europei come obiettivo, possibilità e orizzonte. Quello che rende la sua figura assolutamente unica sono il metodo scelto e il tratto antropologico esibito per dare seguito a questo obiettivo. Nella storia dello sport, la volontà di vittoria si è sempre accompagnata all’ossessione della sua conquista, specie nella situazione di dover cercare di rimediare a dei fallimenti precedenti. “Smania di vincere” la descrive Omero nelle prime gare sportive di cui la cultura europea conservi memoria, la stessa che porterà il giorno di Natale del 1979 Sebastian Coe ad allenarsi due volte sotto la neve, prima e dopo pranzo, perché convinto che il suo rivale Ovett avrebbe fatto altrettanto, salvo poi scoprire qualche decennio dopo che il suo collega e rivale non si era allenato affatto. Per i suoi adepti, atleti o allenatori, il mistero della vittoria è tale da confinare con la nevrosi e la malattia, suggerendo una possibile interpretazione in chiave psichiatrica della storia dello sport e dei suoi interpreti principali. Solo per citare un altro protagonista della scorsa stagione calcistica, un “rabdomante della vittoria” come Antonio Conte incarna ed esprime in ogni suo poro il volto febbrile di questa tensione ossessiva, che ha anche il suo rovescio. Cercare di ottenere il potere che la vittoria sportiva nelle grandi competizioni procura – feste, onori, gloria –, significa sempre rischiare di assoggettarsi al suo potere invisibile e misterioso e alla sua spietata nemesi, la sconfitta, come nel caso degli inglesi e della loro maledizione pluridecennale.
Al contrario, sin dal momento del suo insediamento Roberto Mancini ha vissuto il proprio percorso alla guida della Nazionale manifestando un’inedita combinazione di volontà agonistica e distacco riflessivo. Non il distacco del saggio stoico, che si libera dalle passioni in obbedienza alla verità razionale che governa il cosmo: impossibile non maneggiare le passioni nel ruolo di commissario tecnico della Nazionale, il ruolo che più di ogni altro le attira e le fomenta. Piuttosto un distacco “medico”, da guaritore razionale calmo e capace di effondere serenità, una “forza tranquilla” in chiave calcistica. Il distacco manciniano è sempre stato partecipe, appassionato e vigile, ma è stato appunto un distacco, molto probabilmente forgiato da due elementi capaci di collocare le vicende del calcio alla giusta distanza. La prima, ormai ovvia dopo i ripetuti abbracci iconici, è la vicenda umana di Gianluca Vialli e della sua malattia. La seconda è la profonda fede cattolica e mariana, caratterizzata dalle frequenti visite a Medjugorie, di cui un arguto intellettuale cattolico come Pasquale Annicchino ha segnalato l’importanza non folkloristica.