Breve elogio della solitudine degli atleti olimpici
Fino agli anni Novanta erano famosi come i calciatori. Oggi vivono nell’anonimato per quattro anni. Finalmente è arrivato il loro momento
È esistito un tempo, databile pressappoco tra i Giochi di Roma 1960 e la metà degli anni Novanta, in cui la fama e il peso sociale dei grandi calciatori e dei grandi olimpionici italiani era quasi comparabile. La possibilità di poter vivere e vedere in diretta le imprese dei secondi, se confrontata alla scarsa frequenza delle apparizioni televisive dei primi (confinata alle partite di coppa o alla Nazionale), quasi uguagliava i rapporti di forza mediatici. Oggi, in piena era del calcio come commodity televisiva, il rapporto si è completamente ribaltato, con l’Italia che nel nuovo millennio è divenuta assieme ai paesi sudamericani una grande patria della monocultura calcistica.
L’esistenza spettacolare a ritmo quotidiano di alcuni sport ha reso la ricorrenza ciclica quadriennale delle Olimpiadi estive molto più lunga e dilatata dal punto di vista percettivo (la pandemia ha aggiunto un’ulteriore coda non prevista). L’olimpismo è stato catturato dalla teoria della coda lunga: una ben nutrita nicchia che può vedere sempre di più dell’evento olimpico e delle millemila gare che lo compongono, in un aumento esponenziale della copertura televisiva e in streaming, e un pubblico generalista che al contrario vive e partecipa meno di un tempo delle emozioni olimpiche, immerso nel profluvio di informazioni, chiacchiere e immagini calcistiche.
Per queste ragioni di compressione mediatica, un Gregorio Paltrinieri, una delle più grandi figurazioni agonistiche della storia dello sport azzurro, non è leggendario nel modo in cui lo furono gli Abbagnale, e parliamo di un vincente e un campione. La conferma di questo cambiamento arriva da un fatto abbastanza ricorrente: spesso il modo per esistere mediaticamente degli olimpionici recenti è essere ammessi a parlare di calcio (o magari di Nba) sui grandi media, chiedendo loro pareri e opinioni sulla propria squadra del cuore. Questo cambiamento epocale della nostra cultura sportiva (non riscontrabile nella nostra storia novecentesca) non va però per forza declinato in termini negativi o di lamentela. Esiste una nobiltà dell’invisibilità olimpica, soprattutto nelle discipline che non conoscono altri significativi momenti di ribalta, che va riconosciuta e apprezzata, e a cui è dedicato il presente elogio.
Più ancora dei campioni celebrati, c’è una grande classe media di atleti olimpici che – microcerchie social a parte – vive nell’anonimato quasi ogni giorno dell’anno una quotidianità fatta di allenamenti, ritiri, gare, controlli antidoping, sedute di fisioterapia, in un’attenzione al dettaglio della gestione delle fasi del recupero che solo negli ultimi anni i calciatori hanno mutuato proprio dagli atleti delle discipline olimpiche cosiddette “minori”. L’elogio va speso non solo per il senso della fatica, motivo classico quanti banale, ma anche per un altro aspetto, quello di una lotta contro il destino molto più “tragica” di calciatori e tennisti: ogni atleta olimpico conosce la rarità delle occasioni per poter rimediare a occasioni sprecate, fallite o mancate, perché solo la vittoria nell’appuntamento olimpico regala fama e distinzione profonde, e solo la partecipazione olimpica garantisce un serbatoio di ricordi capace di durare per una vita intera, ripagando gli intensi sforzi profusi.
Da questo punto di vista va segnalata una novità: ogni atleta della spedizione azzurra da qualche edizione a questa parte, complice una politica redistributiva degli accessi alle competizioni che ha penalizzato lo sport europeo a favore delle altre aree del mondo, conosce la grande difficoltà, ignota ai non addetti ai lavori, di anche solo qualificarsi all’appuntamento col destino olimpico (su questo tema una segnalazione al merito va spesa per il gruppo Facebook “Fratellanza Olimpica”, che da anni tiene puntuale registro del complesso iter di qualificazione dei nostri atleti e delle nostre squadre, con uno spirito di abnegazione encomiabile). Senza fare torto alle tante discipline del programma olimpico, c’è uno sport che incarna alla perfezione questa solitudine mediatica fatta di sudore e fatiche, mescolata alle intemperie climatiche: il canottaggio, che a Tokyo insegue una medaglia d’oro mancante da Sydney 2000.
C’è un altro motivo di elogio della dignità olimpica, stavolta in chiave italiana. Una folta schiera di nostri atleti impegnati a Tokyo incarna delle tradizioni locali che sono uno dei motori su cui da oltre un secolo si regge la nostra cultura sportiva, anche se in maniera poco avvertita. In questi giorni si è parlato di Livorno, in rapporto agli abitanti la città che invierà più atleti a Tokyo, ma anche la città italiana che, sempre in proporzione alla struttura demografica, ha vinto più medaglie, non solo nella scherma grazie ai maestri e agli atleti del Circolo Fides, ma in tante altre discipline. Tradizioni di agonismo tramandate nel tempo dal nucleo di fondatori, come accade nella scherma per tante altre realtà, da Jesi a Vercelli per arrivare a Catania, a Marcianise per la boxe, per la prima volta rappresentata al femminile con Angela Carini, il già citato canottaggio tra l’area pontina di Sabaudia e la Castellammare dei fratelli Abbagnale, la Puglia del taekwondo: veri e propri distretti delle medaglie olimpiche o della partecipazione olimpica, come i distretti di specifiche produzioni industriali. Un giro d’Italia ideale che sarebbe bello valorizzare anche in termini storici e culturali, molto più di quanto sia stato fatto sino a oggi.