Il foglio sportivo
Ti sei prenotato? A Tokyo la zona mista è morta, viva la zona mista
Qui si piange la dipartita del luogo in cui l’evento sportivo celebrava la sua grandezza, il “mischione”
Agli inizi di questa strana Olimpiade dedichiamo un’elegia alla zona mista. Come si legge sul dizionario Treccani, l’elegia è “un componimento poetico di argomento vario improntato a un tono, meditativo e malinconico, di compianto per una condizione d’infelicità di varia origine”. In questo caso piangiamo la dipartita del luogo di incontro dei grandi avvenimenti sportivi, il posto dove l’Olimpiade celebrava la sua più vera grandezza, cioè il fatto di essere un “mischione” senza soluzione di continuità. A Tokyo la zona mista è morta. Già i giapponesi non volevano l’Olimpiade e alla fine l’hanno accolta piazzando ovunque un muro di plexiglas. La zona mista, per chi non fosse addentro, è il luogo dove i media incontrano gli atleti, a cavallo di una transenna.
Fino a Rio de Janeiro era il luogo supremo della calca. La transenna tracciava un confine, ma la situazione era fluida, le braccia si allungavano, la linea non era mai rispettata. Per conquistare la transenna, l’Everest per i giornalisti in prima linea, dovevi affrontare effluvi di sudore e di altri liquidi corporei, spigoli di macchine fotografiche, microfoni e videocamere, penne e taccuini, registratori e cellulari. L’abbiamo maledetta, abbiamo litigato in una babele di insulti per guadagnare lo spazio vitale a scapito dell’avversario. Ora per accedervi (da questa parte del plexiglas che si è aggiunto alla vecchia cara transenna) ci vuole la prenotazione.
Facciamo un esempio. A Sydney 2000 Davide Rummolo stabilì il record italiano dei 200 rana in batteria, stracciando il primato di Domenico Fioravanti, fresca medaglia d’oro nei 100. Una sorpresa assoluta, un gregario di successo (alla fine fu bronzo nella finale vinta dal nostro numero 1): ci scapicollammo in zona mista per scoprire chi fosse. Ora, se succede qualcosa del genere, se non ti sei prenotato, in zona mista non entri. Negli stadi non c’è il pubblico, ma la stampa deve prenotare lo stesso. Per certi sport, soprattutto re e regina dell’Olimpiade, nuoto e atletica, occorreva il biglietto anche prima. Però a Rio, in piscina, c’erano 700 posti, ora sono 450. Ma se non ci siamo prenotati e un italiano va a medaglia? In questo caso c’è la press conference obbligatoria e qualcosa recuperi. Oppure, dopo, vai a Casa Italia che l’astuto Danilo Di Tommaso, gran ciambellano del Coni, ha piazzato in un albergo accreditato, uno dei luoghi cioè, dove si può andare senza incorrere in sanzioni. Però, se l’atleta ha altre gare, non si può muovere dal villaggio. Greg Paltrinieri, per dire, uscirà dalla bolla solo alla fine della sua lunga Olimpiade. Non c’è neanche più il buffet, a Casa Italia, che sfamò legioni di inviati e ospiti vari.
Ah, il tavolo. Io, se fossi andato a Tokyo, non avrei certo rinunciato a Sushi 6, il ristorante nel compound del mercato del pesce dove c’è la mia foto con il numero di sushi che mi mangiai un giorno di luglio del 2002. Ma fuori dalle strutture indicate, non si può andare. Chi ci prova, se beccato, è fuori. Infatti, un famoso editorialista di un grande quotidiano italiano, ha chiamato un alto funzionario del Cio e gli ha chiesto: ma io posso andare a pranzo al ristorante. “No”. E lui, giustamente, è rimasto a casa.
Il Villaggio era un crogiolo di culture, razze, lingue. La mensa un luogo di meravigliosa promiscuità in cui si facevano incontri decisivi per la propria vita. Un giovane Roger Federer, a Sydney 2000 conobbe Mirka Vavrinek tennista irrilevante ma fondamentale per la vita del più grande tennista del mondo. Adesso ci si guarda da un posto all’altro dei tavoli attraverso l’immancabile plexiglas e le insalate si devono tirare su dalle ciotole con i guanti.
In teoria c’è ancora il “mischione”, ma i casi degli ultimi giorni stanno inducendo molte spedizioni a impedire i contatti. Quello che non si può impedire è che si dividano le strutture del Villaggio. L’Italia, alla palazzina 16, è in compagnia dell’Argentina. Però sarà molto difficile incontrare dei simil Livio Berruti e Wilma Rudolph mano nella mano come gli originali in una tiepida sera romana del ‘60. Perché le delegazioni vigilano e perché a Tokyo non c’è nulla di tiepido. Quello che mancherà all’Olimpiade 2020 (traslocata causa Covid nel 2021) sarà il gusto dell’inatteso, la storia minore che diventa maggiore, l’imprevedibilità. Non sentiremo più l’urlo al Media Center, “c’è un italiano a medaglia nel pentathlon”, che ci faceva correre da una parte all’altra della città. O forse ci sarà ma, subito dopo, arriverà la domanda: “Ti sei prenotato?”.