Una foto del 2 gennaio 1987 che ritrae l’allenatore Bo Schembechler che urla al quarterback Jim Harbaugh durante una partita a Pasadena (LaPresse) 

il foglio del weekend

Giochi proibiti

Giorgio Bertellini

La storia del celebre allenatore di football Bo Schembechler dell’Università del Michigan. Il figlio denunciò un abuso ma lui tacque

Il 9 giugno scorso il Detroit Free Press pubblica un’intervista esclusiva. Il giorno dopo è un pezzo di cinque colonne sulle seguitissime pagine sportive del New York Times. La notizia è sensazionale: rivela un dramma di sfruttamento che scuote il mondo dello sport statunitense. Il figlio adottivo del famosissimo allenatore della squadra di football dell’Università del Michigan (U-M), “Bo” Schembechler, racconta che decenni prima il padre ignorò gli abusi sessuali da lui subiti e perpetrati dal medico della squadra, Robert E. Anderson. Il piccolo Matt Schembechler, di soli dieci anni, faceva parte della squadra dei pulcini e, per comodità, si sottopose ad alcune visite con Anderson. Questi ne abusò almeno due volte. Il bambino ne parlò con la madre che sconcertata ne riferì subito al marito. La reazione di Schembechler, secondo il figlio Matt, sarebbe stata violentissima: avrebbe colpito il bambino a pugno chiuso insultandolo per averlo distratto dalla preparazione della partita di football della settimana successiva. Bo Schembechler aveva altri due figli adottivi e uno naturale. Quest’ultimo, in una dichiarazione sul sito di Sports Illustrated, ha negato che il padre fosse mai stato a conoscenza degli abusi a danno del figlio. Ovviamente questa non è mai stata solo una vicenda famigliare.

  
 Al centro di questa storia tragica c’è quell’intreccio oscenamente impari fra atleti di grande talento, ma senza alcun potere che, appartenenti a minoranze o a classi inferiori, arrivano a giocare a football presso una università di nota con una borsa di studio che li rende facilmente ricattabili. Il futuro dipende dal loro rendimento in campo e dai rapporti con allenatori e medici della squadra. Anche se oggi molte cose sono cambiate grazie a nuove opportunità remunerative proibite in passato e soprattutto grazie alla visibilità che singoli atleti possono ottenere attraverso ai social media, quest’intreccio rimane forte. Per capirlo pienamente dobbiamo legarlo a contesti più ampi – quello dello sport e del marketing delle università di massa – che possiamo cogliere solo se scaviamo più a fondo su quanto è effettivamente successo.

  
Chi scrive è particolarmente sensibile alla responsabilità di un padre per un figlio e dopo vent’anni di lavoro all’Università del Michigan sente la responsabilità di capire cosa sia successo a un’istituzione per la quale prova rispetto e gratitudine ma anche, in questo momento, molta vergogna.
Innanzitutto, la notizia della presunta indifferenza del famoso allenatore di football per la violenza inflitta dal medico societario al figlio ha rappresentato un terremoto non solo in Michigan, ma in tutto il mondo sportivo nazionale. Non è una notizia che ha sorpreso tutti, però. Che un allenatore di football dimostri poco o nessun interesse per gli abusi sessuali subiti dai suoi giocatori da parte di medici e preparatori atletici è una tragedia purtroppo già vista. Il caso più eclatante, emerso un decennio fa, è stato quello dell’allenatore simbolo della squadra di Penn State, l’italo-americano Joseph “JoePa” Paternò. Per anni aveva coperto le malefatte del suo coordinatore difensivo, accusato e poi condannato per reiterati abusi su minori. Paternò lo aveva fatto per proteggere la stima che il mondo dello sport nutriva per la sua squadra di football, e quindi in fondo per proteggere sé stesso. Nel caso in Michigan, la notizia bomba è che la presunta vittima dell’abuso è addirittura il figlio di un allenatore fra i più stimati nell’universo del football americano. In realtà siamo di fronte a un copione già noto. Bo Schembechler, invece di sporgere denuncia e prendere provvedimenti contro il collega ha apparentemente preferito non fare nulla per salvaguardare la reputazione dell’ammiratissimo programma di football. Sul serio e tutto qua? L’impressione è che questa spiegazione rappresenti la punta dell’iceberg.

  
Andiamo con ordine. Chi era Bo Schembechler? Per ventun stagioni, dal 1969 al 1989, Glenn Edward “Bo” Schembechler (1929-2006) è stato l’allenatore e il simbolo della squadra di football dell’Università del Michigan. Con lui U-M, come il nome dell’Università del Michigan è spesso abbreviato, ha vinto 13 volte la cosiddetta Big Ten Conference (una sorta di campionato d’élite del Midwest), anche se non ha mai vinto il titolo nazionale. Schembechler ha rivitalizzato le rivalità storiche con Michigan State, Ohio State e Notre Dame, rendendole sfide di interesse nazionale, cioè eventi televisivi di primissimo piano. Il suo stile? Era noto per gli allenamenti estenuanti e la rigorosa preparazione fisica. Ma era anche famoso per promettere ai suoi atleti che se fossero rimasti tutti i quattro anni del percorso universitario laureandosi prima di passare al professionismo avrebbero vinto almeno un titolo. Promessa che in un modo o nell’altro è sempre riuscito a mantenere.

 
Fin qui la leggenda sportiva. Se ci chiediamo cosa rappresentasse Bo al di fuori del campo (ma sempre nell’universo del sport), scopriamo altre dinamiche. Mettete piede in un campus universitario a fine estate, magari ai primi di settembre. Assisterete all’arrivo di migliaia di studenti che con armi e bagagli si trasferiscono negli alloggi universitari o nelle casette tutte uguali, prese in affitto appena fuori il campus. Per statuto metà degli studenti ammessi ogni anno alle università statali devono provenire dallo stesso stato. La retta annuale è approssimativamente metà di quella sborsata dai cosiddetti non-resident. Questi ultimi sono la gallina dalle uova d’oro.

 
Per fare in modo che il tasso di accettazione (non il numero, si badi) degli studenti, specialmente non residenti, sia basso, cioè per garantire all’ateneo un certo grado di esclusività, bisogna che un’università abbia una visibilità nazionale. Detto in altri termini, le università pubbliche, specie se situate fuori dai grandi centri, devono essere di massa, cioè teoricamente aperte a moltissimi candidati, ma anche selettive. Solo così possono rimanere competitive anche se non avranno mai l’aura delle cosiddette Ivy League (titolo che accomuna gli otto atenei privati più prestigiosi degli Stati Uniti d’America) che infatti non hanno bisogno di programmi di football celebri.

  
Questo strano equilibrio ha una sua storia. Negli anni del secondo Dopoguerra, una legge speciale (nota come G.I. Bill) consentiva ai soldati di ritorno dal fronte di iscriversi all’università godendo di significative sovvenzioni economiche. Successivamente, quando la prima generazione di baby boomer, cioè la classe di individui nati fra il 1946 e il 1964, raggiunse la maggior età, le università conobbero un periodo d’oro in termini di iscrizioni. Divennero meno esclusive e si aprirono a nuove fasce di utenti (per lo più bianchi). I costi delle università nel frattempo aumentavano.
Dagli anni Sessanta, la diminuzione dei contributi dei singoli stati al budget delle università pubbliche rese necessario un aumento delle rette annuali sia per i residenti e, soprattutto, per i non residenti. Per convincere i giovani di New York o Los Angeles, per esempio, bisognava che un’università situata a migliaia di chilometri di distanza avesse una fama nazionale. A garantirla fu quell’intrecciarsi di affari e immaginario di sport (specialmente il football) e network televisivi nazionali (Abc e Cbs, più di Nbc). Questi negli stessi anni Sessanta cominciarono a trasmettere sistematicamente le partite su scala nazionale. Per anni la copertura televisiva del college football durante quasi tutta la giornata del sabato, da settembre a gennaio, forniva alle università la migliore campagna promozionale possibile. Poi se una certa squadra vinceva spesso, la sua copertura mediatica si allargava ad altri media e alla semplice cronaca sportiva si aggiungevano continuamente storie di colore, specie riguardo a rivalità vecchie e nuove. Come insegnano i manuali giornalistici americani, ogni storia-notizia per diventare popolare ha bisogno di personaggi popolari.

 
Anno dopo anno, i protagonisti delle notizie di football non erano necessariamente i giocatori, che andavano e venivano, ma l’allenatore, il coach. Figura potenzialmente continuativa e memorabile, questi aveva l’opportunità di diventare personaggio pubblico se mostrava una personalità inconfondibile e una voglia sfrenata di vincere. E se poi vinceva parecchio, allora diventava qualcosa di intoccabile. Questo è quanto è successo all’università del Michigan di Ann Arbor (un’ora a ovest di Detroit), che a credenziali accademiche sempre molto alte, aggiunge a un certo punto una dimensione atletica spettacolare, simboleggiata della grande “M” maiuscola. Quella singola lettera, gialla su fondo blu, campeggia al centro (e intorno) allo stadio di football più grande d’America (capienza 107.601 spettatori), come da decenni ricordano le riprese dall’alto del dirigibile sponsorizzato. Chi ha messo quella M gialla nell’immaginario sportivo televisivo americano? La squadra di football allenata da Bo Schembechler. 
Torniamo alle notizie delle ultime settimane. L’articolo del New York Times si concentra sul presunto abuso subito dal figlio dell’allenatore, ma riporta anche le inchieste condotte sin dal 2018 sull’operato pluridecennale dall’ormai defunto Anderson e sulla condotta nello stesso periodo di Bo Schembechler. Il pezzo dà voce a coloro che accusano l’allenatore-simbolo di negligenza irresponsabile, anche se altri, come l’attuale allenatore Jim Harbaugh (che giocò come quarterback per Schembechler) provano vagamente a difenderne l’onore.

 
In queste circostanze cronisti e lettori guardano alla leadership dell’università, dal presidente al Board of Trustees, vale a dire al consiglio di amministrazione dell’università, composto da personalità prestigiose, ma esterne, elette internamente, che costituisce l’organo decisionale più alto di un ateneo. Dieci anni fa a Penn State furono alquanto severi, ma solo dopo l’arresto della persona incriminata, cioè decenni dopo che le voci sui suoi abusi erano iniziate a circolare. Per non aver fatto allontanare il collega dagli atleti, pur conoscendone i crimini, l’ottantacinquenne Paternò perse tutto, posto e reputazione, e anche la vita. Morì nel giro di poche settimane. Sei mesi dopo la sua morte, la sua statua venne rimossa dallo spazio pubblico antistante lo stadio. Secondo le dichiarazioni ufficiali era diventata una distrazione e un elemento di divisione fra chi ancora lo adorava e chi lo detestava.

  
Ad Ann Arbor, molti segnali preoccupanti erano già emersi anni prima dell’intervista bomba di Matt Schembechler. Nel 2018 alcuni ex studenti avevano accusato Anderson, morto dieci anni prima, di attenzioni mediche e comportamenti inappropriati già a partire dagli anni Settanta. Anderson aveva lavorato a U-M dal 1968 al 2003, ricoprendo molti ruoli di rilievo, specialmente quello di medico sportivo ufficiale. Le indagini interne non avevano portato a risultati concreti, ma le denunce penali si assommavano. Nel gennaio del 2020 l’università commissionò a un ufficio legale un’indagine indipendente a suo carico. Un mese dopo i risultati cominciavano a dare piena ragione alle denunce.

   
Febbraio 2020: nel quotidiano online dell’università, The Record, il presidente Mark S. Schlissel ammette la verità delle accuse a Anderson e chiede pubblicamente scusa alle cinque vittime e a chiunque non avesse ancora deciso di offrire la propria testimonianza. Non basta. Il Board of Trustees fa partire un’altra indagine. Assume un altro studio legale e anche se lo scopo di questa nuova indagine indipendente è ufficialmente quello di fare raccomandazioni riguardo a cambiamenti alle norme e ai protocolli ufficiali dell’università, l’obiettivo pare più ambizioso. Non solo si intende far luce su tutte le colpe di Anderson, ma anche – e questa è a novità – identificare chi era a conoscenza dei suoi abusi e non fece nulla o quasi per allontanarlo. Il riferimento a Schembechler è ovvio, specialmente visto che fino a quel momento nessun riferimento era emerso a carico dello stimato allenatore.

  
Nel documento finale di 240 pagine, datato maggio 2021 (quindi poche settimane prima dell’articolo del New York Times), si scopre che gli studenti che avevano avuto esperienza di abusi erano centinaia. Si scopre che l’università non solo sapeva, ma che spesso insabbiava le proteste per proteggere il programma di football. Dallo stesso documento la figura di Schembechler emerge come quella di un coach che o non prendeva seriamente le proteste degli studenti o che addirittura usava la minaccia di una visita medica supplementare come fattore motivazionale! Gli studenti temevano di perdere le borse di studio con le quali, in cambio delle loro prestazioni atletiche, erano arrivati alla prestigiosa università. Lo stesso documento riporta, con sorprendente mancanza di autoriflessività, che la palestra (Schembechler Hall) in cui Anderson aveva commesso gli abusi a partire dal 1991 era stata nel frattempo dedicata al famoso allenatore. Non sappiamo ancora se l’imponente statua dell’allenatore, situata al di fuori dello stadio dal 2014, rimarrà o no. Una cosa è certa: non è più quell’icona di tenacia atletica e competitività che avevano reso famoso l’ateneo del Midwest. Nel momento in cui diventasse il simbolo della perdita di credibilità della “M” giallo e blu, possiamo essere certi che non la rivedremo più. 

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