Chi sono le rifugiate olimpiche a Tokyo 2020
Kimia Alizadeh, Masomah Ali Zada e Nigara Shaheen. Le tre eroine apolidi hanno sfidato Ayatollah e Talebani per partecipare alle Olimpiadi
“Javad Foroughi, l’infermiere iraniano oro nel tiro a segno: ‘Ma curare i malati di Covid è molto più dura’”. Storia edificante quella sul Corriere della Sera, se non fosse che Foroughi fa parte delle Guardie della rivoluzione dell’Iran. “United For Navid”, che prende il nome dal campione di wrestling Navid Afkari imprigionato e impiccato dalla Repubblica islamica, ha scritto che “l’assegnazione di una medaglia d’oro a Foroughi è una catastrofe per la comunità internazionale e per la reputazione del Comitato olimpico”. Dal profilo Twitter di Tokyo 2020 è arrivato un tweet di congratulazioni ai suoi oltre sei milioni di follower con una foto di Foroughi: “Debutto d’oro! Ben fatto!”.
Ben più edificante la storia delle atlete afghane e iraniane che fanno parte della squadra di rifugiati a Tokyo. C’è Kimia Alizadeh, la prima medaglia olimpica femminile iraniana che vinse il bronzo nel taekwondo alle Olimpiadi di Rio del 2016 e fuggita un anno fa in Germania. Un anno fa, Alizadeh ha annunciato su Instagram che non voleva più vivere in Iran e far parte di “ipocrisia, bugie, ingiustizia e adulazione” come “una delle milioni di donne oppresse in Iran”. Ne aveva abbastanza della propaganda: “Indossavo tutto ciò che mi dicevano e ripetevo tutto ciò che mi ordinavano”.
E poi le afghane Masomah Ali Zada (ciclismo) e Nigara Shaheen (judo). Shaheen ha affrontato grandi minacce in Afghanistan e Pakistan. Pagine Facebook sono state create contro di lei, portandola a temere per la sua sicurezza e la sua vita. Masomah voleva andare a Tokyo da Kabul, ma il suo sogno è finito in tanti pezzi, come le bici su cui si allenava, distrutte dai talebani.
Arte ha girato un documentario sulla sua squadra di ciclismo, “Les Petites Reines de Kaboul” (le piccole regine di Kabul). In Afghanistan una donna che va in bici viene presa a sassate, perché quella libertà è per le donne occidentali e non per loro. Loro che adesso temono, e chi può scappa, il ritorno al potere dei talebani, che hanno diffuso una fatwa: “Tutti gli imam e i mullah nelle aree catturate devono fornire ai talebani un elenco di ragazze sopra i quindici anni e vedove sotto i quarantacinque anni da sposare”. Le chiamano “kaniz”, merci, e “qhanimat”, bottino di guerra.