EPA/TATYANA ZENKOVICH

Il Foglio sportivo

Viva le Olimpiadi all you can eat

Giuseppe Pastore

L’on demand di Tokyo 2020 segna il passaggio definitivo al consumo digitale dello sport, mentre la tv arranca  

Se i Giochi di Tokyo 1964 avevano presentato al mondo i cronometri elettrici, le trasmissioni via satellite e le prime forme di sponsor e insomma avevano trascinato di peso le Olimpiadi nell’èra contemporanea dopo l’indimenticabile edizione romana, la conturbante e sconcertante Tokyo 2020/2021 – con il suo côté da manga post-atomico di palazzetti deserti, appartamenti angusti e alienante burocrazia – sta procedendo nel solco già abbondantemente scavato negli ultimi mesi: siamo tutti un po’ più soli eppure tutti un po’ più collegati, ovviamente a distanza, costretti a un presente spiacevole ma sempre più liberi di riarredare e riorganizzare i nostri spazi interni. Il disagio di molti atleti, giovani bellissimi e stressatissimi, dimostra che la transizione emotiva sarà difficile e dolorosa. Al contrario, quella tecnologica galoppa che è una bellezza: la copertura televisiva dei Giochi di Tokyo è uno strumento di onnipotenza che rende finalmente concreto e presente quel futuro di cui ci siamo riempiti la bocca per anni.

 

Un’anticipazione l’avevamo avuta con il celebre mosaico sfoggiato da Sky ai tempi di Londra 2012, che per la prima volta aveva acceso in contemporanea sette-otto canali sui Giochi. Ma in quel caso si trattava comunque di una scelta “dall’alto”: c’era molto, gli italiani e il resto del mondo più interessante, ma non tutto tutto. Invece l’on demand di Eurosport/Discovery, capace di ogni segnale video aperto sulle Olimpiadi – tutti i campi da tennis, le pedane di scherma, le “dedicate” sui vari attrezzi della ginnastica... – amplifica i Giochi e li rende potenzialmente infiniti: nelle lunghe ore di dormiveglia dilatate dal silenzio della notte, c’è sempre la possibilità di recuperare uno Spagna-Argentina di basket o uno Svezia-Francia di pallamano. I puristi proclameranno che l’Olimpiade, e più in generale lo sport, esiste solo se in diretta, e questo è sacrosanto: ma di differite o semplici pisolini tattici sono fatte queste lunghe mattine olimpiche, in molti casi agevolate anche dallo smartworking a oltranza e dalla totale accessibilità di ogni evento su ogni dispositivo digitale, il che ci rende autori, coordinatori, montatori e finanche registi dei nostri personalissimi Giochi.

 

Gli imbarazzi della Rai costretta a sfumare le finali per il bronzo della scherma perché c’è da mandare il Tg2 sembrano echi di un passato giurassico, anche se la Tv di stato si sta comportando dignitosamente, dovendo rivolgersi per statuto a un pubblico che non ha tempo né voglia né capacità di inseguire in prima persona un’Olimpiade intera, e si accontenta volentieri del menu del giorno a prezzo fisso, la tovaglia di carta e il vino della casa. L’all you can eat è invece esperienza vertiginosa soprattutto se affrontata senza paracadute, come alcuni temerari stanno facendo in questi giorni: ovvero, silenziando la telecronaca italiana o inglese e abbandonandosi ai rumori e soprattutto alle voci dei campi-gara (nella semifinale di sciabola a squadre Italia-Ungheria, per esempio, si potevano ascoltare tutti gli incitamenti di Montano e compagni come se si fosse a bordo pedana).

 

Ancora una volta tocca allo sport farsi carico della rivoluzione digitale, come iniziamo a intuire anche nel calcio dove Tim ha individuato nel pallone il terreno ideale per la sua killer application da milioni di abbonamenti. Nel caso di Tokyo 2020 però, oltre alle conoscenze tecnologiche che è necessario possedere per surfare tra i vari campi-gara, si afferma anche una diversa cultura sportiva che ci rende un po’ più evoluti del solito cliché dello sportivo da divano che ogni quattro anni assorbe l’abbuffata olimpica, la digerisce e poi la dimentica. L’andarsi a cercare le cose, anche il semplice puntare la sveglia alle 3 e mezza per guardare Paltrinieri, Federica Pellegrini o il canottaggio dà una dignità maggiore a gente che – lo urlano tutte le interviste, tutti i post social – sta soffrendo tanto il periodo, come e più di noi, e soffre il peso della responsabilità, la tensione, il sogno chiamato a diventare realtà.

 

L’andare a spulciare tra le finestre dell’app in cerca della finale della sollevatrice di pesi Giorgia Bordignon, invece che vedersela piombare tra capo e collo su Rai2 a un passo dall’abbiocco post-prandiale, ha una sua natura stranamente poetica, di quella poesia inspiegabile che ci fa appassionare senza preavviso dei rumori di pancia e di cuore che rimbombano in un palestrone alla periferia di quest’Olimpiade profondamente imperfetta. Fino a vivere esperienze audio-video davvero borderline: qualche giorno fa – era lunedì mattina e a Milano, fuori dalla finestra, diluviava – al sottoscritto è capitato di passare mezz’ora collegato via streaming con la remota spiaggia di Tsurigasaki, vagamente incantato da una gara di surf tra un italiano e un peruviano, di cui ignoravo le regole. Mi rendo conto di suonare come l’amico filosofo di Nanni Moretti in Caro Diario, che prima dichiara sdegnato di odiare la televisione e poi si ritrova completamente schiavo di Beautiful; ma se esiste un uso virtuoso di sfruttare la tecnologia, l’avventura televisiva di Tokyo 2020 ci sta andando molto vicino.

 

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