Tocca a Jacobs essere accusato senza prove. Il doping è un problema culturale
L’atletica (e non solo) non ha più diritto di stupire? I sospetti di Washington post e Times sulle prestazioni dell’atleta italiano a Tokyo 2020
“La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile, che insensibile e sottile, leggermente e dolcemente incomincia a sussurrar”.
Erano trascorse poche ore dall’oro di Marcell Jacobs nei 100 metri olimpici che Adam Kilgore, reporter sportivo del Washington Post, si travestiva da don Basilio per sollevare la questione: i 9”80 di Tokyo 2020 sono solo farina dell’atleta gardesano? Anzi, già cinque minuti dopo che il neocampione aveva levate le braccia al cielo, il collega inglese Matt Lawton – caposervizio del Times – si lasciava andare a un “ah well” via Twitter, commentando l’impresa del 26enne azzurro, capace di scendere sotto i 10” per la prima volta a maggio, di progredire al 9”84 della semifinale (record europeo col terzo tempo, preceduto da due rilievi ancora inferiori) e migliorarsi ancora in finale.
Dopo aver titolato i natali texani dello sportivo, impossessandosi di una parte del merito, il quotidiano della capitale statunitense prosegue nello stupore per i suoi risultati, ribadendo l’incredulità riguardo tali performance: “Prima del 2021 – scrive il WP – Jacobs non aveva mai corso i 100 in meno di 10”03, un tempo che non lo avrebbe qualificato per la finale dei Trials. Eppure oggi solo dieci uomini hanno corso più veloce di lui nella storia”. Atavica diffidenza verso il newcomer dal pedigree bizzarro? No, Kilgore lo scrive apertamente: “Non è colpa di Jacobs se la storia dell’atletica leggera getta sospetti relativi a crescite improvvise ed esponenziali. Gli annali sono zeppi di casi di campioni ‘pop-up’ che più tardi si sarebbero rilevati truffatori e dopati. Sarebbe ingiusto accusare Jacobs, che merita il beneficio del dubbio: ma non è il caso della sua disciplina sportiva”.
Tendiamo a escludere che la tesi – tutta ovviamente da dimostrare – sia frutto della delusione per il secondo posto di Kerley e la preventiva esclusione del favorito Bromell (9”77 il suo personale). Ma le insinuazioni tra le righe vanno oltre il retropensiero, per asseverare il quale il Times chiama a correo le migliori prestazioni di sempre nella categoria: escluso il fenomeno Bolt (per il quale parla la sua fisicità eccezionale), 32 dei migliori 36 tempi sarebbero stati ottenuti da centometristi in seguito positivi agli steroidi. Quindi, secondo gli accusatori, oltre ai Green, Burrell, Coleman e Gatlin, anche il cinese Su e l’altro statunitense Baker – entrambi quotati 9”83 nella pazzesca semifinale del 1° agosto – sarebbero passibili di illazioni.
Quella giapponese è la seconda Olimpiade segnata dalle sentenze contro il doping di Stato, che privano la Russia di gareggiare sotto la propria bandiera. Ma stranamente l’unico appunto immediato e concentrico è stato sollevato nei confronti dell’italiano, che sprizza spontaneità, lavoro e sicurezza di sé, fin dai blocchi di partenza e dal suo rapporto con le telecamere. Tutt’altra pasta di chi ha qualcosa da nascondere, ricordando Ben Johnson a Seoul, per dirne uno.
A quota 9”80 ormai assodata, storicizzata e plausibile da parte degli uomini più veloci al mondo, il problema diventa culturale: anni di pubblicistica e aneddotica del sospetto hanno ingenerato in folte masse l’opinione che dietro ogni exploit si nasconda il marcio. Ovviamente in assenza di prove, e nemmeno della loro ricerca negli istituti superiori di sanità. Significa che nessuno può legittimamente prepararsi, gareggiare, vincere, perché ce la fa solo assumendo flaconi e creme proibite. Che l’atletica, assieme ad altri sport, non sia stata immune è un fatto; che cinquanta milioni di italiani, domenica tra le 12 e le 15, abbiano pianto di gioia e urlato al miracolo a causa di alambicchi e scorciatoie va rigettato al mittente e al suo brodo di coltura, un tempo ben poco fertile nel giornalismo corporate. Chi lancia il sasso e ritrae la mano, sperando che eventuali indagini dell’ex IAAF facciano corso, si preclude con Jacobs il diritto e il piacere di stupirsi ancora, senza aggrottare le sopracciglia del dubbio.