Tokyo 2020. Cosa c'è di davvero strabiliante nel record dell'Italia dell'inseguimento a squadre
Consonni, Ganna, Lamon e Milan si giocano l'oro alle Olimpiadi contro la Danimarca. In semifinale hanno realizzato la miglior prestazione della storia della specialità. E questo nonostante un paese che ha dimenticato i velodromi
Che la pista del velodromo di Izu fosse veloce se ne erano accorti subito tutti i corridori dopo i primi giri. Questione di tecnologia. Ossia di levigatura del legno, dei prodotti utilizzati per il trattamento delle assi, di aria condizionata. Anche quella. Il sistema di condizionamento permette di ridurre quasi a zero l’umidità, anche grazie al poco pubblico presente nell’impianto. “Strabiliante”, ha commentato il dieci volte campione del mondo della Velocità individuale Koichi Nakano dopo aver provato l’impianto.
Strabiliante come abbassare di oltre due secondi il record mondiale sull’Inseguimento a squadre. L’impianto ha aiutato, le gambe però lo hanno reso reale. Quelle di Simone Consonni, Filippo Ganna, Jonathan Milan e Francesco Lamon che alle Olimpiadi di Tokyo 2020 hanno fermato il cronometro a 3'42''.307, record del mondo, il miglior modo possibile per affrontare la finale. Il record precedente l’aveva segnato la Danimarca che nel 2020 aveva corso in 3'44.672. I danesi potevano ritoccare al ribasso il loro primato, la semifinale non l’hanno però conclusa. Un loro atleta ha tamponato un corridore inglese che si era staccato dal quartetto e a giocarsi l’oro olimpico ci sono finiti per procura.
Se sarà oro o argento lo vedremo domani 4 agosto.
In ogni caso il risultato degli Azzurri è davvero strabiliante e non solo per la presenza nella finale, non solo per il tempo con il quale i quattro hanno coperto i quattro chilometri della prova. È strabiliante perché è la rivincita dell’artigianato e del talento slegato dal contesto, dalla capacità di lavorare bene plasmando al meglio quello che si ha. Perché Consonni, Ganna, Milan, Lamon sono straordinari pistard nonostante tutto. Nonostante soprattutto lo stato comatoso nel quale versano gran parte dei nostri velodromi, un tempo luoghi di culto del ciclismo, ora sacrari dimenticati e abbandonati a loro stessi e a un numero imprecisato di utopisti che ancora si dannano a inseguire l’idea che un paese con una tradizione ciclistica secolare non può fare a meno di queste strutture.
Di velodromi in Italia ce ne sono ventisette, solo uno adatto, per misure della pista (ora di 250 metri), a ospitare eventi internazionali, quello di Montichiari. Lo stesso che per quasi un anno e mezzo (dal luglio del 2018 al novembre del 2019) è stato chiuso a causa di problemi strutturali. In quei mesi i nostri Azzurri si sono allenati dove capitava, anche al Vigorelli, il Velodromo dei velodromi che se non fosse stato per un gruppo di volontari sarebbe un rudere da abbattere. Alla faccia di quel che il Vigo è stato per la storia del ciclismo italiano e mondiale (e non solo per quel record dell'Ora di Fausto Coppi durante la Seconda guerra mondiale).
E così mentre i britannici possono scegliere dove allenarsi tra sei anelli, i danesi tra quattro e i neozelandesi (che l’Italia ha superato in semifinale) tra tre, gli Azzurri non hanno scelta. Poter scegliere a volte è superfluo, almeno per i professionisti. Il problema è che per i giovani non lo è e poter contare su più impianti funzionali sarebbe necessario per preparare i possibili campioni di domani. Lo diceva Jacques Anquetil che “in pista si impara a correre”. Lo sottolineava Eddy Merckx che “un velodromo serve a formare la tenacia del giovane corridore”. Lo dimostrano i risultati recenti che nel ciclismo su pista vincono ormai soltanto quei corridori che hanno a disposizione impianti, fondi e ricerca. Poi c’è l’Italia, che ha poco o nulla di tutto questo, ma che comunque è lì a giocarsi medaglie, a sfoggiare una squadra di corridori strabilianti, nonostante tutto. C’è soprattutto l’ostinazione del ct della pista Marco Villa e di Davide Cassani che hanno deciso di non far morire un mondo che aveva entusiasmato l’Italia per decenni e decenni.
Consonni, Ganna, Lamon e Milan non vanno solo applauditi, siano dati loro velodromi. Il ciclismo italiano ne ha un disperato bisogno. Nonostante tutto.