Cerchi magici
Medaglie di cartone
I letti a prova delle ossessioni giapponesi (sostenibilità, sesso e salute). Il vero valore del podio
Roba minima, roba da barbon, avrebbe cantato Jannacci per il suo omino con le scarp de’ tenis. Senza immaginare che molti anni dopo, dall’altra parte del mondo, i cartoni da imballaggio, quella roba minima usa e getta che da sempre per i barbon (vulgo homeless) sono letto e casa, riparo e giaciglio, sarebbero stati imposti agli atleti delle Olimpiadi. E’ una delle storie collaterali che hanno più divertito e più animato i social di Tokyo 2020. Ma a guardarla in controluce, è un altro capitolo del grande romanzo delle ossessioni del Giappone, senza soluzione di continuità come i paesaggi dei suoi dipinti tradizionali. Nel villaggio olimpico si dorme in letti di cartone “completamente riciclabili”. Il comitato organizzatore giapponese era molto fiero del contributo alla sostenibilità dei Giochi, e di questi letti minimi e smaltibili, prodotti dall’azienda giapponese Airweave.
Ma è bastato poco, e un buontempone come il mezzofondista afro-statunitense Paul Chelimo ha fatto partire la leggenda metropolitana che i letti di cartone, dunque proverbialmente fragili, servissero in realtà a impedire l’attività sessuale tra gli atleti: che come ognun sa è lo sport principale del villaggio, gare comprese. Il Comitato organizzatore non è stato contento di passare per bacchettone, preferisce passare per salutista (del resto aveva programmato la distribuzione di 150 mila anticoncezionali tra gli atleti, ma poi ha raccomandato di non avere rapporti sessuali). Ma la leggenda supera sempre le buone intenzioni, e la quantità di “prove di resistenza dei letti” su Instagram ha superato, in visualizzazioni, quella per i 9 secondi e 80 di Marcell Jacobs. Con punte esilaranti. Invano i serissimi giapponesi hanno tentato di riportare i cartoni sul giusto binario etico ecologista. Niente, la Airweave ha dovuto fare buon viso, e ringraziare per l’inattesa pubblicità alla robustezza dei propri letti. Non è l’unica ossessione salutista giapponese ad aver provocato reazioni impreviste negli sportivi. Ad esempio le regole della quarantena per i positivi al Covid hanno scatenato polemiche e persino denunce di condizioni “da gulag”. Avevano iniziato cinque olandesi, inscenando un sit-in nella hall del loro albergo (“prigione olimpica”). La verità è che l’ossessione per la sanità e la compatibilità ambientale è di una noia olimpionica.
Vista la messe di ori, s’è iniziato a fare i conti di quanto alla fine valgano, economicamente, le vittorie. Non sono esattamente medaglie “di cartone”, ci mancherebbe altro. Ma si scoprono almeno due cose interessanti. La prima, normale, è che i dividendi dei contratti con gli sponsor, e i nuovi sponsor che arriveranno, garantiscono almeno nelle discipline più popolari incassi di tutto rispetto. Anche qualche milione, si conteggia ad esempio per l’uomo più veloce del mondo. Al confronto, sanno di cartone le medaglie in sé. Molto più delle medaglie. Ma non tutto il mondo è paese. Se infatti un oro per un atleta cinese vale 26 mila euro, per un australiano ne vale 100 mila e per un russo 150 mila. Ma gli spendaccioni (maddai?) sono gli italiani. Per Tokyo il Coni ha rivalutato a prezzi d’inflazione le medaglie, così che gli ori di Gimbo Tamberi o di Filippo Ganna e soci valgono il record di 180 mila euro. Non male, se pensiamo che gli Usa, ultimi in classifica, pagano sei volte di meno, 21 mila euro. Però sempre lì siamo. In quel paese libero e liberista, quei soldi restano tutti o quasi nelle tasche di chi ha vinto. In Italia, invece, il 42 per cento va in tasse, cioè ritorna nelle tasche dello stato (che poi mantiene le federazioni). Un altro record. Da piangere.