L'addio di Messi. Le regole della passione e quelle del mercato
Tra Barcellona e il numero 10 non ci sono né vittime né carnefici. Il gioco economico che i blaugrana hanno contribuito ad alimentare gli si è ritorto contro. Le lacrime dell'attaccante argentino non sono ipocrite, non si può chiedere ai calciatori di rivoluzionare il sistema
Le regole della passione e dell’affezione non hanno nulla a che fare con quelle del mercato. Viaggiano su strade distantissime, rispondono a logiche diverse e difficilmente sovrapponibili. Sono strade che sembrano parallele, ma parallele non sono, tendono immancabilmente l’una all’altra. L’angolo di convergenza varia, a volte è talmente irrisorio che non basta una vita per farle entrare in collisione. A volte molto meno. E quando ciò accade quasi sempre hanno la meglio le seconde sulle prime, quasi mai succede il contrario. Anche se a volte questo si verifica.
Sono collisioni che molte volte riguardano l’ambito privato delle persone, vengono notate da pochissimi. Quando avvengono nello sport invece la deflagrazione è enorme, inghiotte migliaia e migliaia di persone, genera oceani di parole e sentimenti. Prevalentemente rabbia e rancore, almeno dalla parte di chi subisce la prevaricazione delle regole del mercato su quelle dell’affezione. Non esistono tonalità di grigio tra il nero dell’abbandono e il bianco della fedeltà a una maglia.
È capitato innumerevoli volte nella storia del calcio. L’ultima, almeno per ora, è quella che ha per protagonisti Lionel Messi e il Barcellona.
Le ragioni della passione e dell’affezione avrebbero voluto che il numero 10 rimanesse a vita con la maglia blaugrana addosso. Non doveva andare diversamente per un giocatore che è stato portato in Spagna dall’Argentina e che dai catalani è stato prima curato (era affetto da un problema all’ipofisi che impediva la normale secrezione degli ormoni ipofisari), poi fatto diventare calciatore e infine campione. E ricompensato per le prestazioni da un contratto che negli ultimi cinque anni ha portato nelle tasche del calciatore oltre 555 milioni di euro tra paga annuale che poco superava i 70 milioni a stagione, premio alla firma e premio fedeltà. Fedeltà che c’è stata, anche se suo malgrado nell’ultima stagione, ma che non è stata rinnovata. O meglio, che sarebbe stata pure rinnovata, e per la metà del compenso, ma che il Barcellona non ha potuto rettificare a causa delle troppe spese a bilancio per il resto della rosa (la Liga ha introdotto anni fa un “limite di costo della rosa sportiva”, cioè ha imposto a ogni club – accordo che le stesse squadre hanno voluto – un monte ingaggi massimo che cambia di anno in anno a seconda dei ricavi).
Certo Lionel Messi avrebbe potuto ricontrattare il proprio stipendio al ribasso, fare di tutto per poter inserire il suo stipendio dentro i limiti massimi che il campionato spagnolo permetteva. Avrebbe potuto, non l’ha fatto. Il tempo degli addii è arrivato. Le lacrime sono sgorgate dai suoi occhi. Lacrime che non sono ipocrite o idiote, come è stato da più parti sottolineate. Lacrime e basta. Legate a un affetto per la maglia che è sempre esistito e che l’argentino ha sempre dimostrato sul campo nelle sue 810 partite e nei suoi 683 gol.
Le ragioni dell’addio non sono dovute soltanto all’archiviazioni delle ragioni dell’affezione. C’è altro e quest’altro richiama le ragioni del mercato.
Perché anche la fedeltà ha un prezzo. Ce l’ha nella rinuncia alle possibilità alternative che ci si pongono davanti nell’esistenza. Ce l’ha nel trovare nella routine il bene, o forse il meglio che la vita può offrire. Ce l’ha nella necessità di pensare al plurale e non al personale. “La fedeltà ha un prezzo che entrambe le parti in causa di un rapporto devono pagare. E più è grande e meraviglioso ciò che si può perdere, più questo è alto. Finché si assiste a un sostanziale equilibrio tra le due componenti tutto appare facile. Quando questo equilibrio si rompe ecco che tutto rischia di marcire e crollare. Mi sto convincendo sempre più che il sentimento non sia poi diverso dall’economia. E questo pensiero mi spaventa, mi fa rabbrividire. Sono anch’io un agente di borsa nella borsa dei sentimenti?”. Era il 1960 e in Arthur Miller stava iniziando a vacillare la sicurezza del suo amore per Marilyn Monroe. Il drammaturgo a Hunter S. Thompson sul Rolling Stone confidò, anni dopo, che per lui era diventato sempre più difficile “poter far fronte al suo essere diva. Non parlo solo di soldi, anche se quelli hanno avuto un peso, parlo più che altro di dimensioni esistenziali che erano diventare incolmabili. Le mie scelte umane e lavorative erano diventate talmente altre dalle sue che prima o poi qualcosa di irreparabile doveva accadere”.
Leo Messi non è solo un campione del calcio, allo stesso modo di Marilyn Monroe è un divo internazionale che travalica i confini del proprio settore. E per un giocatore del genere, per anni tra i migliori al mondo, se non il migliore, il prezzo della fedeltà è così alto che può diventare insostenibile. Soprattutto se le regole dell’affezione hanno gonfiato quelle del mercato.
Il Barcellona non ha subito l’abbandono di Leo Messi. Ne è stato compartecipe. Arthur Miller allora non si nascose dietro il vittimismo, parlò con franchezza, evidenziando come i matrimoni spesso finiscano per necessità.
E la necessità in questo caso risponde alle regole del mercato.
Mettere sotto contratto un campione ha un prezzo. Ottenere le prestazioni di uno dei migliori in circolazione ne ha uno ancor maggiore, il più alto di tutti. In questi anni il Barcellona ha goduto delle reti e delle giocate di Messi, grazie (anche) all’argentino ha conquistato un palcoscenico globale vendendo gadget e maglie in tutto il mondo, gran parte di quello che ha sborsato gli è rientrato tra botteghino, sponsorizzazioni e similari. In tutto questo giochino al rialzo ha anche alzato stipendi, cifre sborsate per gli acquisti. Si è insomma avvalsa del mercato per generare affezione, contribuendo al lievitare del costo del calcio, all’aumento vertiginoso dei contratti. La pandemia ha incriccato il meccanismo. Per alcuni, non per tutti. E tra questi c’è il Paris Saint-Germain. La squadra parigina non segue le logiche dei suoi rivali, può avvalersi di un fondo che al momento pare infinito, può cavalcare insomma ancora le regole del mercato che tutti i grandi club, Barcellona compreso, hanno creato.
Leo Messi avrebbe potuto sgonfiare tutto questo accettando un contratto decisamente inferiore? No. Senza altro avrebbe potuto far prevalere le leggi dell’affezione, avrebbe potuto ergersi a modello di un cambiamento possibile. Ma sarebbe valso poco, forse nulla. È un professionista, uno tra i migliori. Nelle grandi aziende i manager più quotati vengono attratti con aumenti di stipendio. Il calcio è una grande azienda, piaccia o no. Almeno sino a quando reggerà. Anche le grandi aziende vanno in default.