Il Foglio sportivo
Se non ci fosse stato Elia Viviani...
L’oro a Rio 2016, il bronzo a Tokyo 2020, e in mezzo uno sport che si è rianimato anche grazie a lui
A veder le biciclette girare in tondo nell'ippodromo di Bologna, il poeta Olindo Guerrini si infervorò. Se ne tornò a casa brontolando e, presa carta e penna, scrisse all’amico Alfredo Oriani, che condivideva con lui la passione del pedalare: “Solo un folle e uno stolido può provare piacere a girare in un ovale. E pure un velodromo vorrebbero costruir. Come si può pensare a chiudere i velocipedi in un recinto? È l’aberrazione stessa del pedalare. La gioia dello stare in sella diventa solo perseveranza del muovere i pedali”.
Perseveranza. La stessa che ha avuto in questi anni Elia Viviani nel continuare a pedalare in un velodromo mentre tutto quello che aveva sognato da ragazzino veniva giù, offuscato da un diffuso menefreghismo per quello che faceva.
Viviani sembrava aver sbagliato epoca. Provare affascinazione per la pista quando l’interesse di tutti era rivolto altrove, alla strada. Pure la Sei giorni di Milano era scomparsa. Fortuna era nata quella delle Rose a Fiorenzuola d’Arda altrimenti non ci sarebbe stato un grande evento per pistard nel nostro paese. Fosse andata così se ne sarebbero comunque accorti in pochi.
Gli italiani iniziarono ad abbandonare i velodromi verso gli anni Settanta, iniziarono a dimenticarsi della loro esistenza verso la fine dei Novanta. Una botta di vita era riuscita a darla Silvio Martinello. I campioni sanno entusiasmare, destare interesse, soprattutto con al collo una medaglia olimpica: accadde ad Atlanta 1996, oro nella corsa a punti; e a Sydney 2000, bronzo nell’Americana con Marco Villa.
Il grande vuoto iniziò allora. Dal 2000 al 2011 l’Italia scomparve dal medagliere dei mondiali su pista. Mauro Trentini nel 1999 conquistò l’ultima medaglia, un bronzo nell’inseguimento individuale. Le donne provarono a preservarne il ricordo. Le vittorie di Vera Carrara, Giorgia Bronzini ed Elisa Frisoni riuscirono quanto meno a non seppellire del tutto il movimento.
Nel frattempo i velodromi rimanevano aperti solo grazie all’ostinazione di manipoli di persone convinti che il ciclismo non potesse andare avanti senza un ovale. Che lo scatto fisso servisse nella formazione di un corridore.
“E come serve. Fausto Coppi diceva che dava il tocco in più”. Mauriano Lignon a Novi Ligure ci andò per Biagio Cavanna, il preparatore guru dell’Airone. Non sfondò nel ciclismo, ma al ciclismo rimase legato. A Padova aiutò Mario Vallotto (oro nell’Inseguimento a squadre a Roma 1960) negli allenamenti. “Al velodromo Monti era una festa ogni giorno. Poi il pubblico diminuì e i ciclisti pure. Finché rimasi quasi solo. Io e qualche vecchietto come me che ancora passava per di là per ricordare i bei tempi. Poi arrivò Elia Viviani. E quell’oro a Rio nell’Omnium”, dice al Foglio sportivo.
È tornata soprattutto la passione. Perché di passione sono animati i velodromi. È soprattutto questa che ha spinto Marco Villa, ct della Nazionale della pista, e Davide Cassani a non demordere, a costruire attorno all’esempio di Viviani le basi di un movimento che ha deciso di non desistere, nonostante i pochi soldi, il solo velodromo a norma per le gare internazionali, quello di Montichiari, i problemi legati all’impianto, chiuso per oltre un anno e mezzo a causa di problemi strutturali, il luogo comune diventato vox populi che nel ciclismo quello che conta sono le gare su strada.
Il successo della pista alle Olimpiadi è una resistenza ciclistica. Quella di Elia al tempo e ai problemi fisici: bronzo nell’Omnium a Tokyo 2020. Poi l’oro nell’Inseguimento a squadre: un tributo all’amore. Quello di ragazzi che spinti da questo sentimento facevano di tutto pur di andare a Montichiari a dare una mano ad Elia Viviani ad allenarsi. Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon erano tra questi. C’erano Liam Bertazzo, Michele Scartezzini, Marco Coledan, Davide Plebani. Non fosse stato troppo giovane avrebbe dato il suo contributo pure Jonathan Milan, il quarto vagone del treno dei record a Tokyo 2020. Marco Villa ha saputo plasmarli. Aveva iniziato con Viviani e qualche sogno. Ha saputo raccogliere e infondere entusiasmo, è riuscito soprattutto a trasformarlo in abnegazione, in volontà di affermarsi, di dimostrare che i velodromi ci sono, che la pista è viva ed è una goduria pazzesca.