Gerd Müller era un'epifania
È morto a 75 l'ex attaccante del Bayern Monaco e della Germania. L’ Alzheimer aveva cancellato i suoi ricordi, quelli che in Baviera sono conservati a braccetto con l’idea che se ancora molti altri campioni vestiranno la casacca del club, uno come lui non ripasserà mai più per di lì
Ci si accorgeva mai di lui. O almeno mai prima, durante l’azione. Perché dopo era assai facile individuarlo: era quello che esultava per il gol fatto, l’ennesimo. Gerd Müller era un’epifania. Appariva quando serviva, faceva quello che doveva fare, ossia il gol, e tutti gli avversari si chiedevano: e questo da dove è saltato fuori? Non c’era una risposta valida se non un boh. Anche perché il suo nome era conosciuto ovunque, temuto da tutti. Come fosse una garanzia, una certezza di sventura, una partenza a handicap. Un uno a zero a priori, perché lui un gol l’avrebbe fatto.
Eppure era sempre una sorpresa. Lui appariva dal nulla, segnava e scompariva. In vent’anni di carriera e quasi ottocento partite complessive nessuno si è accorto di lui. Almeno durante l’azione. Ieri invece della sua scomparsa se ne sono accorti tutti. Non poteva essere così. Gerd Müller è morto a 75 anni. L’ Alzheimer aveva cancellato i suoi ricordi, quelli che in Baviera sono conservati a braccetto con l’idea che se molti altri campioni vestiranno la casacca del Bayern Monaco, uno come Gerd Müller non ripasserà mai più per di lì. Perché un giocatore come lui semplicemente non sarebbe più preso in considerazione nel calcio di oggi.
Gerd Müller era senza schema, non aveva preferenze, non desiderava che la squadra giocasse in un certo modo per agevolarlo. A dire il vero non gliene fregava nulla di come la squadra giocasse. Che il gioco partisse dalle fasce o si sviluppasse al centro per lui era uguale. Necessitava solo di una cosa. Che la palla arrivasse nel suo regno, l’area di rigore. Lì avrebbe trovato lui il modo di spingerla in rete. Di testa o di petto, di destro o di sinistro, di punta o di collo, di schiena o di stinco, tutto era lecito, tutto era consentito. Il come per Gerd Müller non contava, l’estetica per lui era superflua, a contare era altro: la rete che si gonfiava, il boato del pubblico per il gol.
“Vivo per quel rumore, per quell’esplosione di gioia”, disse nel 1973 al termine della sua stagione più reboante: sessantasei gol in quarantanove partite.
Udo Lattek, il suo allenatore d’allora al Bayern Monaco, proprio al termine di quella stagione lo descrisse come nessuno prima e dopo era riuscito a farlo. “Giochiamo con dieci uomini e Gerd. Gerd si sbatte per la squadra, ma è oltre la squadra. Nel calcio si dice che i gol degli attaccanti sono la conseguenza della costruzione del gioco della squadra, beh…so mica se è proprio sempre così. Gerd è rapido ma non rapidissimo, c’è di meglio. È ben piazzato, certo, ma la forza non è la sua caratteristica principale. Ha un buon tiro, ma in giro c’è gente molto più brava. Ha un dribbling elementare anche se preciso, ma è ininfluente per il suo gioco, può benissimo non utilizzarlo. Nel gioco aereo non è male, ma non è una torre. Tecnicamente se la cava, ma non è la sua dote. Eppure non troverete un attaccante migliore di lui, né ora né probabilmente mai. Gerd vede le cose prima che si materializzano, non ha un sesto senso per il gol, è il sesto senso del gol”.
Sessantotto gol in sessantadue partite nella Nazionale tedesca. Seicentosessantuno in settecentoventicinque con le squadre di club. La quasi totalità di questi al Bayern Monaco. La squadra che sognava da bambino, la squadra alla quale approdò a diciannove anni dopo due rifiuti.
Il primo a quattordici anni. Era fine aprile quando i Roten organizzarono un provino con i migliori giocatori della Baviera. Tra loro anche un Gerd bambino. Non lo presero nemmeno in considerazione: si muove bene, ma è troppo gracile. Il secondo a sedici anni. Un osservatore lo segnala alla società perché segna caterve di gol nelle giovanili. Un dirigente lo va a vedere, lui ne fa tre, ma il giudizio è negativo: “Fatica a gestire il pallone, non è adatto a un grande club”. Quell’uomo era Wilhelm Neudecker, colui che l’anno successivo divenne presidente del Bayern Monaco e che firmerà il suo acquisto su richiesta dell’allenatore Zlatko Čajkovski. Si narra che allo jugoslavo fu segnalato da un amico che viveva a Nördlingen, centoventi chilometri a nord-ovest di Monaco. Čajkovski lo vide giocare e al capo dei Roten disse: “Uno così o lo prendete o lo prendete. Perché è uno che sa fare i gol. Non vorrete mica farvi fregare uno che può diventare il più forte attaccante della Germania?”.
Il Bayern non si mangiò le mani. Gerd Müller aiutò i bavaresi a vincere tutto. Quattro campionati e quattro Coppe di Germania, tre Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe. E aiutò pure la Germania Ovest a vincere tutto: un Europeo e un Mondiale, con tanto di record di gol segnati che durò per quarant’anni.
Gerd Müller segnava, lo faceva con una naturalezza spaventosa, come se superare un portiere fosse la cosa più facile del mondo. “Sinceramente non so quanti gol ho subito da Gerd, ma mi sembra parecchi”, disse qualche anno fa alla Sueddeutsche Zeitung Norbert Nigbur, a lungo portiere dello Schalke 04 e dell’Herta Berlino e riserva di Sepp Meier nel Mondiale vinto dalla Germania. “Gerd non era un attaccante, era una spada di Damocle su tutta la difesa. Non c’era modo di fermarlo, non perché fosse inarrestabile, perché era un’anguilla, trovava sempre il modo di sgusciare via e fregarti. Giocavi con l’ansia, eri obbligato ad attaccare, perché se la palla arrivava in area lui segnava”.
Gerd Müller fu un amplificatore di spettacolo. Il pensiero di Nigbur era lo stesso di Johan Cruyff. “Se gioca Müller devi fare ancora più gioco d’attacco. Anzi, devi fare solo gioco d’attacco, evitare scientificamente che la palla arrivi nella tua area. Altrimenti sei finito”. Ne sapeva qualcosa. La sua Olanda perse una finale mondiale a causa di un suo gol.
Pure noi italiani dovremmo essere grati a Gerd Müller. Senza i suoi gol la partita del secolo sarebbe stata un po’ meno del secolo. In Italia-Germani 4-3, in quei supplementari a Messico 1970 il numero nove tedesco apparve due volte. Fu lui a portare avanti i tedeschi nei supplementari, a riprendere gli Azzurri al centodecimo minuto. E, inconsciamente, ad accendere l’orgoglio di Gianni Rivera.