Il resto è tifo
Bentornato campionato. Ma niente lacrime, è solo calcio
Poche balle: il football è dei campioni che sanno farsi pagare. Ricomincia la serie A, dopo un’estate di addii clamorosi (Messi, Donnarumma, Lukaku), di sportivi indignati e di moralismi sullo strapotere dei soldi
Le due immagini più significative e anche divertenti (belle forse è una parola un po’ grossa, ma senz’altro simboliche) dell’estate calcistica 2021, stagione pandemica e/o post pandemica, sono due immagini di lacrime. Di pianti. Le lacrime dei tifosi inglesi dopo aver perso contro l’Italia la Coppa Europa che doveva “tornare a casa”, nella patria del calcio. E le lacrime di Leo Messi, nella conferenza stampa d’addio al Barcellona, da cui ha dovuto separarsi non tanto per forza, ma pur sempre per una magnifica causa di forza maggiore: per poter continuare a guadagnare la montagna di soldi che la squadra catalana, ultimamente con le pezze al culo, per quanto culo blasonato, non poteva più garantirgli.
Nel caso di Messi, lacrime che hanno indignato i tifosi, ma neanche poi tanto: si sono più che altro incazzati con Antoine Griezmann, lo strapagato e sopravvalutato francese il cui unico risultato in blaugrana sarebbe stato, secondo i tifosi, quello di aver appesantito i conti, costringendo la Pulce all’esilio. Perché i tifosi del Barça sono così, més que un club, sono abituati a sentirsi i migliori e a conoscere il valore dei soldi. A indignarsi di più, per le lacrime di Messi, sono stati i moralisti professionali, spesso giornalisti, e i pauperisti da tastiera. Quelli che hanno detto, pensando di darsi un tono intelligente e invece facevano la figura di grillozzi da reddito di cittadinanza: ma se gli dispiace così tanto andare via, perché non rinuncia allo stellare stipendio e rimane a giocare gratis, anzi magari distribuendo qualcosa pure alle riserve? Ovviamente la risposta è semplice, e a prova di fesso populista: perché mai il calciatore più bravo del mondo dovrebbe rinunciare ai soldi che giustamente guadagna? Perché la sua ditta sta fallendo? A lui spiace molto (la sincerità di Messi, che nella Cantera blaugrana ci è cresciuto, non la può mettere in dubbio nessuno), ma il minimo che possa fare è trovarsi un altro lavoro. Alla corte del Qatar.
Nel caso dei tifosi inglesi, il godimento che le loro lacrime hanno procurato (a parte quello nazionalistico di italiani, gallesi, scozzesi e irlandesi) è puramente estetico e filosofico: è la dimostrazione che il tifo non serve a un tubo, non conta un tubo e di solito non vince nemmeno un tubo. L’avventura dell’Inghilterra agli Europei (giocati di fatto quasi in casa) è stata una delle peggiori manifestazioni di sciovinismo e populismo, nonché sovranismo, mai viste nella storia del calcio. Quasi pari a quelli dell’Argentina dei militari nel 1978. A Wembley sventolavano soltanto bandiere di Sant’Andrea, la Union Jack che è sempre stata la bandiera di “tutto il popolo” britannico, è stata ammainata, forse per sempre. Lo slogan della Nazionale di Gareth Southgate, “It’s coming home”, era fatto apposta per attirarsi gli sfottò del resto del mondo. Hanno perso, nonostante la fanfara. Tifosi e principini piangevano. Ecco il calcio.
Inizia oggi, con lo spezzatino più spezzatino che mai, nel calendario e nei diritti di trasmissione spalmati tra piattaforme digitali (i nuovi padroni) e televisioni, il campionato di Serie A. E sarà un campionato post apocalittico, per molte ragioni. Perché ancora sarà una stagione con gli stadi mezzi vuoti (il motivo per cui ci si possa assembrare al ristorante o sugli autobus, se provvisti di green pass, ma non sedersi accanto in curva all’aperto, anche se il green pass per acquistare il biglietto è obbligatorio, non è chiaro. Ma dubitiamo che né il Cts né il ministro Speranza siano in grado di spiegarlo) e questo abbasserà di un bel po’ l’adrenalina delle tifoserie. Senza contare il vero problema: che gli stadi vuoti a metà sono un altro e significativo passo verso il baratro del calcio italiano, tassello decisivo per il fallimento dell’intero sistema del football internazionale. Infine, è tutto l’indebitatissimo sistema calcio europeo a traballare: dalle squadre spagnole alle inglesi alle italiane. In questo senso la SuperLega, progetto malfatto e suicidatosi in una notte, è stata però il grido di un allarme non più rimandabile: il calcio sta affondando. È un paesaggio da fine impero.
Anche tralasciando il green pass e i massimi sistemi economico-calcistici, ci sono motivi per i quali la stagione che inizia sarà particolare. Ad esempio, la squadra campione d’Italia. Che ha rischiato di fallire secca, proprio nei giorni in cui festeggiava lo scudetto raggiunto dopo tanti anni, per colpa dell’insolvenza al limite del piratesco della sua proprietà cinese. E che si presenta al nuovo campionato con un tricolore già mezzo strappato dal petto: senza il suo allenatore vincente (Antonio Conte se n’è andato per primo, vedendo la mala parata societaria) e senza i suoi due giocatori più forti, Hakimi e Lukaku, venduti in una specie di vergognoso 3x2 da discount pallonaro.
E allora lacrime. Ma perché dovrebbero sembrarci divertenti le lacrime del calcio, al di là del tifo che gioca sempre a squadre? Non perché siamo particolarmente cinici: lacrime con i colori della notte ha versato, nella sua cameretta guardando di sguincio il poster di Big Rom Lukaku, anche l’estensore delle presenti note. Doveva essere l’estate dei campioni nerazzurri, e invece s’è tramutata in un malinconico addio alle armi. La passione e lo spettacolo non c’entrano. Per dire che le lacrime sono la cosa più significativa di questa estate del calcio, bisogna capire un po’ di cose. E allora palla al centro, ripartiamo dall’inizio. I tifosi inglesi, i tifosi dell’Inter. Ma anche i tifosi del Barça e quelli del Milan. Dei tifosi inglesi abbiamo detto. Felicità italiana per una vittoria che (pure a noi) mancava da cinquant’anni e sfottò a parte, c’è solo da notare che la sconfitta dolorosa dei Leoni d’Inghilterra indica che per vincere non basta la ricchezza di un sistema calcio, né il potere e prestigio di una federazione, né il montare come una marea della retorica. Ma il destino dei Leoni serve anche per introdurre il tema delle lacrime e dei soldi. Partendo da una crisi simbolo, quella dell’Inter campione d’Italia.
Squadra pazza abituata a soffrire, l’Inter ha trionfato lo scorso anno con una stagione quasi perfetta. “Quasi”, per l’apprensione economica: stipendi non pagati, rischio di sanzioni Uefa, giocatori e procuratori scontenti. Un allenatore carismatico e una grande dirigenza sportiva avevano saputo tenere unito lo spogliatoio, tenere testa ai problemi. Una vittoria festeggiata in grande armonia.
Subito dopo, però, le voci di un possibile crac (la squadra cinese di proprietà della multinazionale Suning, lo Jiangsu, era stata chiusa e liquidata senza complimenti appena vinto il campionato, manco si trattasse di una dittarella in subappalto). Poi la scelta, anziché vendere il club in una situazione di mercato assai difficile, di proseguire con un indebitamento della famiglia Zhang al limite del capestro. E poi le “tragedie” (sportive, of course): la vendita di Achraf Hakimi, il fuoriclasse della fascia. Poi giorni di panico, e il fulmine a ciel sereno: se ne va anche Romelu Lukaku. Al Chelsea, per un mucchio di soldi. E per guadagnare un mucchio di soldi. (Nel mezzo, c’erano state le uniche lacrime importanti di questa estate del calcio: il dramma di Christian Eriksen. Ma poiché quella è una vera storia triste e umana, non se ne parlerà. Un abbraccio a lui).
Torniamo all’Inter. Squadra mezza smontata, lacrime di tifosi e soprattutto l’epifania del fallimento di un sistema. I cinesi di Suning erano giunti a Milano soltanto cinque anni fa, investendo (anche se in gran parte a debito) centinaia di milioni di euro. Promettendo un grande sviluppo. Gettando le basi per la crescita di un grande club. Centro sportivo, squadra, campagna acquisti finalmente all’altezza, l’allenatore più pagato d’Italia, il progetto del nuovo stadio. Poi la crisi del Covid, gli stadi chiusi, incassi azzerati, sponsor in fuga. Restano solo i costi stratosferici degli stipendi. Disastri che hanno colpito tutte le squadre d’Europa (l’unico continente in cui il calcio è un vero business) e che hanno colpito duramente anche società come il Real Madrid, il Barcellona, il Tottenham, il Milan o la Juventus. Il caso dell’Inter è in realtà in parte diverso: le difficoltà finanziarie sono dovute al drastico cambio di strategia del governo di Pechino, dittatura comunista: non si spendono più soldi all’estero per attività non strategiche, e vale anche per le aziende presunte private, ma in realtà sottoposte a stretto controllo statale. E il calcio non è più strategico, nemmeno come forma di soft power, come era stato per una decina di anni. Il gruppo Suning, già in difficoltà per la pandemia in Cina, si è trovato con una voce a debito (quasi 700 milioni) difficilmente sostenibile. Vendere, non hanno voluto o non sono riusciti. Risultato, hanno deciso di smontare la squadra per rientrare. Lacrime, ma l’economia e la geopolitica hanno una logica che non conosce sentimenti.
La situazione non è diversissima per altre squadre. Gli americani del fondo Elliott che possiede il Milan, più liquidi dei cinesi nerazzurri, hanno lasciato andare, e senza incassare un soldo, Gigio Donnarumma. Che voleva e fortissimamente ha voluto andare a Parigi, a guadagnare il doppio al Paris Saint-Germain e (forse) a vincere la Champions. È andato quasi senza salutare, lacrime rossonere (e italiane) e i soliti commenti insinceri sull’immoralità dei soldi che corrompono i giovani campioni. La Juventus nominalmente sta un po’ meglio, perché la proprietà è di famiglia e il club può rifinanziarsi attraverso sponsor del gruppo, e non c’è nessun governo o investitore straniero a porre veti. Ha avuto anche la forza di imporre un taglio di stipendi, segno della sua credibilità. Però non è riuscita (finora) a sbarazzarsi del suo costo più alto, CR7: la società l’avrebbe fatto ma il calciomercato ha le sue regole non scritte, e deve sperare che questo sia l’anno buono.
Ma i soldi vanno dove vogliono. E siamo alle lacrime di Messi. Il Barcellona è stato per decenni uno dei club più ricchi del mondo. Poi la crisi, sì. Ma più che altro una gestione furibonda, soldi buttati in mercati assurdi, compensi arrivati al 103 per cento del bilancio. Ora si tratta di tagliare o fallire. Vale anche per il ricchissimo Real Madrid, che si è messo a dieta, tre anni fa respirò con la plusvalenza Cristiano Ronaldo ma ora ha dovuto lasciar partire la sua bandiera Sergio Ramos, anche lui in direzione soldi qatarioti di Parigi. La Liga spagnola ha imposto un salary cap drastico alle squadre, Messi era arrivato ad accettare (in teoria) un taglio del 50 per cento ai suoi 50 milioni all’anno di stipendio. Non bastava lo stesso. Così Messi ha pianto, ed è andato via. Nel suo piccolo (un piccolo da 115 milioni incassati dall’Inter) il caso di Lukaku è analogo. Steven Zhang ha senza dubbio tirato un sospiro di sollievo vedendolo partire; ma il centravanti belga ha voluto chiarire che se ne andava, dalla sua amata squadra vincente, perché al Chelsea lo pagheranno di più e avrà più occasioni di vittoria. Va dove ti porta il mercato, o almeno la carriera.
La domanda che tutti si fanno è: ha ancora un senso – un valore, una bellezza, una capacità di suscitare passioni – un calcio così? In tanti, in questa estate di lacrime e sangue, hanno iniziato a rispondere di no. Il sistema è scoppiato, è insostenibile. E questo è vero. C’è troppa disparità tra ricchi e poveri. E questo è vero, anche se c’è sempre stata. Il problema è che senza regole, senza un quadro stabile e definito, non può esistere altro che la corsa dei soldi. Il fluttuare del cash e dei debiti. Oggi ci sono due squadre in Europa che hanno da sole quasi più soldi di tutte le altre. Il Psg e il Manchester City: proprietà private di teste coronate islamiche. Poi c’è il Chelsea, proprietà di Abramovich, ma lì conta anche una gestione oculata, il magnate transfuga dalla Russia ha saputo ben amministrare. Qualche altra inglese: lo United, il Liverpool e il Totthenam si barcamenano tra proprietà internazionalizzate e solide e andamenti dei bilanci che solo i fantastici diritti televisivi tengono a galla. Le spagnole stanno tirando la cinghia (con più logica di sistema delle italiane, che galleggiano complessivamente su una drammatica bolla). Poi ci sono le tedesche, il modello Bayern: i conti in ordine per legge e la proprietà diffusa e territoriale per legge. L’unico modello virtuoso davvero. In Italia lo sogna per l’Inter Carlo Cottarelli, ma ce n’est qu’un début.
Di tutto questo, nel populismo delle tifoserie e dei giornali, la colpa viene data soprattutto ai giocatori. Mercenari strapagati. Ed è qui che si torna alle lacrime da cui siamo partiti. Tifosi e giocatori. Hanno dato di bugiardo e infingardo al pianto di Leo Messi. Invece era solo commozione, al Barcellona ci ha passato tre quarti della vita, chiunque avvertirebbe il contraccolpo di un distacco. Ah be’, però i soldi? I soldi sono esattamente, né più né meno, nient’altro che il motivo per cui Leo Messi gioca a calcio; per cui lasciò l’Argentina da bambino, per cui non fa altro che allenarsi e tirare calci (e prenderne, tanti) da quando ha 10 anni, 14 anni. Giocare per guadagnare: come diceva Samuel Eto’o, che era arrivato all’aeroporto di Barcellona a 14 anni dal Camerun con un sacchetto di plastica come unico bagaglio, “corro tutto il giorno come un nero per poter vivere da bianco”. Essere il più bravo, per essere pagato di più. Come in tutti gli altri lavori del mondo. Messi doveva forse restare gratis? È insensato e nemmeno morale, lo si può dire senza nemmeno scomodare l’etica del capitalismo.
E Lukaku? L’amato re di Milano aveva giurato amore, come tutti. E Donnarumma? Hanno fatto bene. Benissimo. Come Chalanoglu che ha lasciato il Milan perché non gli dava i 5 milioni che voleva: tanti, maledetti e subito. E la Joya Dybala? Dalla Juve vuole i suoi dieci: attaccamento alla maglia un tubo, altrimenti l’hanno prossimo se ne va. A parametro zero. E CR7? Aspetta solo che Mbappé, il bambino d’oro di Parigi, si ribelli all’idea di guadagnare meno di Messi e che il Real accetti di pagarlo di più. CR7, in quel caso, toglierebbe il disturbo a Torino, destinazione Parigi. Sempre ammesso che gli confermino i suoi 35 netti. La giostra dei milioni potrebbe partire. E se invece, com’è probabile, non partirà, non sarà certo per etica e buona creanza.
E gli inglesi che ancora piangono la loro coppa mancata? Il campione più inglese di tutti, il più forte, quello con la faccia lunga così da inglese che in un film con un tipico personaggio inglese lo chiamerebbero per fare l’inglese: insomma Harry Kane, Hurrycane? È pronto a mandare al diavolo il Tottenham, e a far piangere i suoi tifosi. Per andare al City. Perché lui è il più forte, e vuole vincere e anche guadagnare un mare di soldi in più. Il calcio di questa nuova epoca, di questa nuova stagione pandemica e/o post pandemica non è né dei tifosi né dei padroni dei club, che ormai sono al 95 per cento indebitati come i nobili del Settecento. Il calcio è solo dei campioni che lo giocano, lo spremono, spremono gli sponsor, vanno dove li pagano di più. Le bandiere partono e il tifo resta. Non servono le lacrime.
Il Foglio sportivo