La paura, la solitudine e la partita che mi son perso per parlare di Dostoevskij
Il bisogno di risentire l'abbraccio di 15 mila persone, l'isolamento e quella mascherina che mi è tornata in mente ad Alghero. Cronaca di Frosinone-Parma, che non ho visto, ma che vi racconto lo stesso
Non ho visto Frosinone-Parma, quindi non ho tante cose da dire comincerò raccontando una cosa che mi è successa sei mesi fa, e della quale, all’epoca, avevo anche scritto e che mi sembra dica quanto sono contento, quando posso andare allo stadio e quanto mi dispiace, quando non ci posso andare.
Nel marzo scorso, stavo uscendo di casa per andare a Firenze a vedere Fiorentina-Parma, ho preso al volo una mascherina, mi sono accorto che era la prima mascherina lavabile che avevo comprato un anno prima, a Bologna, in via Saragozza, in una panetteria. E ho provato una specie di affetto, per quella mascherina, la mia prima mascherina, e un piccolo brivido pensando: “Un anno fa”.
Ho sofferto di tante malattie, nella mia vita: enuresi, reumatismi, ipertensione, ma nessuno ha mai pronunciato, in mia presenza, la parola “depresso”, riferita a me. Non ho mai sentito nessuno dire che ero depresso o che soffrivo di depressione, né mi son mai rivolto a qualcuno per curarla. Eppure mi è successo, ogni tanto, di stare in casa per un certo periodo, sei mesi, tre mesi, due settimane, senza volere incontrare nessuno e senza voler pensare a niente, come immagino facciano i depressi. Sono sempre stati momenti che precedevano un cambiamento che mi sembrava importante, ho scritto: iscrivermi all’università, a 25 anni, laurearmi, a 31, pubblicare il mio primo romanzo, a 35.
A pensarci, non so se era depressione, forse era paura. Ho sofferto tanto di paura, ho scritto, nella mia vita. Enuresi, reumatismi, ipertensione, paura. Ma non sono ipocondriaco, non ho paura di ammalarmi, il contrario: ho paura di essere sano, ho paura di fare le cose che mi piacciono.
Quando penso alla paura mi viene in mente un libro sull’Iran di un celebre giornalista polacco, "Shah-in-shah", di Ryszard Kapuściński, la parte in cui Kapuściński scrive che i libri sulle rivoluzioni iniziano di solito con un capitolo dedicato alla corruzione del potere in declino, alla miseria e alle sofferenze del popolo ma che, secondo lui, dovrebbero cominciare con un capitolo in cui si spiega il processo per cui un uomo oppresso e in preda al terrore vince improvvisamente i suoi timori e smette di avere paura. È un processo insolito, dice Kapuściński, che delle volte si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, scrive, non ci sarebbe nessuna rivoluzione.
Ecco io, ho scritto io, di questi lunghi momenti di solitudine, la cosa che ricordo con più chiarezza, l’evento che mi è rimasto impresso nella coscienza, che se ci penso mi ritrovo lì, in mezzo alle cose che c’erano allora, è la rivoluzione che li ha fatti finire.
Per andare a iscrivermi all’università, nel 1988; per andare in biblioteca a cercare dei libri per la tesi, nel 1994; per andare allo stadio, nel 1998. Da solo.
Allo stadio, da solo, e eran degli anni che non andavo allo stadio, e non sapevo nemmeno bene che partita c’era (Parma – Udinese, avevo scoperto), e non sapevo nemmeno bene come erano messe in classifica, e non mi interessava: non volevo veramente vedere una partita di calcio, volevo vedere della gente, volevo vedere quindicimila persone che non conoscevo e che non mi conoscevano e stare per due ore con loro, nell’abbraccio di quella folla di sconosciuti dopo due settimane di paura.
E ho pensato, quella domenica dello scorso marzo, mentre uscivo di casa per andare a vedere Fiorentina-Parma che io, tra i tifosi di calcio italiani, ero un privilegiato, perché ogni tanto, quando il Parma giocava di domenica alle 15 e mi invitano per la trasmissione di Rai 2 "Quelli che il calcio", io potevo vedere dal vivo una partita del Parma, che era un privilegio che pochissimi avevano, in quel periodo; ma era tutta un’altra cosa, rispetto a quello che mi era successo nel 1998.
Da quando avevo comperato quella mascherina, da un anno, non c’erano quei 15.000 o 30.000 o 60.000 sconosciuti, non c’era più il rito, non c’era più la gente e, mi dispiaceva confessarlo: mi mancava. Io, mi dispiace confessarlo, ho scritto, non ne posso più. E mi dispiace confessarlo perché a me, per come son fatto, piace moltissimo, stare da solo.
Quando Gaber cantava "La libertà è partecipazione" io voltavo la testa da una parte e pensavo "Chissà": per me la libertà era andare a iscrivermi all’università, andare in biblioteca a prendere dei libri per finire la tesi, andare allo stadio da solo senza sapere che partita c’era; io ammiravo un filosofo che si chiama Epitteto che esorta a preoccuparci solo dalle cose che dipendono da noi, non di quelle che dipendono dagli altri, e tra le cose che dipendono da noi mette "il nostro umore"; io sono un individualista, e aspiro a essere un anarchico; io, nella mia compiutezza, aspiro ad essere un anarco-individualista, che è una categoria della quale il mondo ha una pessima opinione, oggi, e va bene così; io ho fondato la mia personalità sulla capacità di stare bene da solo, e qualche sera prima di quella domenica di marzo, dopo che avevo provato a fare una diretta Instagram che non mi riusciva, e dopo che avevo provato a leggere il contatore dell’acqua e ci avevo messo quarantacinque minuti e non ci riuscivo, mi ero sentito solo, dopo tanti anni, mi mancava qualcuno che mi dicesse di portare pazienza, e ero arrabbiatissimo non so con chi, con Instagram, forse, o col contatore dell’acqua, probabilmente, ero in preda a un umore che non dipendeva da me, dipendeva dal fatto che, ormai era un anno, non potevo più incontrare la gente, quella gente che era una vita che cercavo il più possibile di evitare.
Mi mancano, ho scritto, quei 15.000, mi manca, per la quarta volta, l’abbraccio degli sconosciuti, come se davanti a me ci fosse, ancora, per la quarta volta, una cosa che mi fa paura, che potrebbe essere la fine della pandemia, ma non credo.
Chissà cos’è, mi chiedevo in marzo, e adesso, siamo in agosto, agli stadi si può andare e io ho stretto un accordo con il Foglio per seguire, allo stadio, in tribuna stampa, le partite del Parma, e la prima partita di campionato, venerdì, l’anticipo Frosinone-Parma, io allo stadio non c’ero.
Ero in Sardegna, ad Alghero, per il festival "Dall’altra parte del mare", e dovevo presentare un mio libro alle 22, e la partita del Parma cominciava alle 20 e 30.
Ho guardato il primo tempo sul computer, in albergo, il buio della mia stanza d’albergo e io, seduto sul letto, che vedo la partita su Dazn, e all’inizio di sono delle cheerleader, che in italiano forse si dice majorettes, ma majorettes forse non è una parola più italiana di cheerleader, coi colori del Frosinone, che poi più o meno sono anche i colori del Parma, che ballano e sventolano delle bandiere, come se fosse una partita di football americano, e poi c’è una cantante del conservatorio, dicono, che canta l’inno italiano, come se fosse una partita di football americano, e poi la partita comincia e in porta per il Parma c’è Buffon, e il Parma in attacco gioca bene ma in difesa meno male che c’è Buffon, e poi Dazn non si vede più e compare una scritta che ci sono dei problemi di connessione e allora paso su Nowtv, che dei problemi di connessione non ne risente, e il resto del primo tempo lo guardo su Nowtv.
E al trentunesimo Buffon fa un’altra parata ma la palla arriva tra i piedi di un giocatore del Frosinone che si chiama Alessio Zerbin che non aveva mai fatto gol in serie B e il primo ha pensato bene di farlo al Parma.
E mi vien da pensare che se il Parma perdesse questa partita perderebbe l’undicesima partita ufficiale di fila, nove l’anno scorso un serie A, una quest’anno in coppa Italia, una, questa, in Serie B, e sarebbe probabilmente un record.
Poi il Parma ha un calcio d’angolo, e di testa colpisce uno che si chiama Balogh, e il commentatore non sa chi sia e per un po’ non dice chi ha colpito di testa, poi dice un nome a caso: Jurić.
E io penso che, a tenere per una squadra minore, succede come quando vai a certi festival di letteratura, a sentire uno scrittore che ti piace, e c’è un presentatore che dovrebbe presentarti il tuo scrittore preferito ed è evidente che non ne ha mai sentito parlare e che dovrebbe succedere il contrario, che dovresti essere tu a presentarlo a lui.
Poi prende la palla Vazquez, il numero 10 del Parma, la lancia in profondità a Brunetta, il numero 8 del Parma, che la passa indietro a Tutino, il numero 9 del Parma, che tira e fa gol, e pareggiamo, e io degenero nel turpiloquio.
Che è una reazione strana: quando ha segnato il Frosinone, che avrei avuto la scusa, per degenerare nel turpiloquio, non ho detto niente, mi sono chiuso in un mutismo rassegnato e colpevole, come se fossi uno che vede la sua squadra perdere 11 partite consecutive e che crede che, un po’, sia anche colpa sua; quando il Parma ha pareggiato, che avrei dovuto esser contento, ho degenerato nel turpiloquio.
Poi arriva la macchina che mi deve portare alla presentazione, e ci avviamo verso il centro di Alghero, e io dopo un po’ controllo su Google e il Parma è passato in vantaggio e io sono così contento, e poi arrivo a Lo quarter, il posto dove c’è la presentazione, in centro ad Alghero, e manca mezz’ora alla fine, e il Parma è ancora in vantaggio, e c’è un’altra presentazione che sfora e io devo aspettare a andar su e ogni pochi minuti guardo il risultato e mancano 20 minuti, poi 16 minuti, poi 11, poi 5, poi 3 e il Parma è sempre il vantaggio; poi guardo, manca un minuto e ha pareggiato il Frosinone, Gabriel Charpentier, uno che in serie B non aveva mai fatto gol e ha pensato bene di fare il primo contro il Parma e io degenero nel turpiloquio e finalmente una reazione normale.
E sono convinto che nel recupero ci faranno un altro gol, c’è successo tante volte, l’anno scorso, che perdevamo le partite nel recupero e invece la partita finisce così, 2 a 2, e io il secondo tempo non l’ho visto, ma forse c’è andata bene, e salgo sul palco a presentare un libro nel quale c’è scritto che a me piacciono due cose che fanno piangere, la letteratura russa e le partite del Parma, e nei 50 minuti che sto sul palco non parlo del Parma, parlo di Dostoevskij, e la gente è attenta, e alla fine mi chiedono di firmare delle copie, e mi sembra che il festival, "Dall’altra parte del mare", sia organizzato benissimo e siamo tutti contenti e a me, quando usciamo da Lo Quarter, mi vien da pensare, “Ma il Parma, non era meglio se vinceva?”.
E mi dico di sì, che sarebbe stato meglio, che sono dodici partite ufficiali che non vinciamo, probabilmente un record, adesso vediamo cosa succede domenica prossima, Parma Benevento, che io lì ci sono, altro che Dazn o Nowtv.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA