Vattene amore, che siamo ancora in tempo. L'addio di Cristiano Ronaldo alla Juve
Tre anni fa per i tifosi bianconeri l'arrivo del portoghese rappresentò l'avverarsi di sogno inconfessato. Ora che la fine della permanenza a Torino è ormai prossima cosa resterà di queste stagioni?
Al tifoso juventino, nel pomeriggio del 10 luglio 2018, il mondo appariva infinito. Le porte della sua percezione erano state aperte dal blitz aereo del presidente Andrea Agnelli in Grecia, dove aveva appena convinto – con la forza delle nuove leggi fiscali italiane – uno dei più forti calciatori al mondo, Cristiano Ronaldo Aveiro dos Santos, a vestire la maglia bianconera. Proprio il giustiziere di coppa, l’autore della rovesciata più iconica nel calcio moderno, avrebbe giocato allo Stadium a tempo indeterminato: poteva essere al massimo un sogno inconfessato, solo un sospiro di fronte al mare. Per l’immaginario pubblico, non si trattava di un giocatore tra i grandi, né uno dei pochissimi fuoriclasse: quanto un monumento vivente, sinonimo stesso di invincibilità dovunque decidesse di sostare.
Ala da giovane, seconda punta sui generis, attaccante centrale poi, Cristiano Ronaldo rappresentava il dominio ineluttabile di un solo uomo sopra gli avversari, le partite e i campionati, e regalava ai supporter zebrati la suggestione di essere di nuovo nel posto che conta all’interno della storia, di essere scelti con preferenza rispetto alle alternative, di sentirsi tra i tetti e le nuvole perché la Juve diventava la squadra di Ronaldo e viceversa.
Al pensiero più lucido e disincantato, che solo in un momento più tardo era disposto a subentrare, il portoghese si mostrava per quello che in effetti è: un brand, una gigantesca impresa personale di applicazione e allenamenti defaticanti nel ghiaccio, poco o niente fuori dal calcio. Trascorsero i minuti dell’attesa, la fugace apparizione dopo le visite mediche, la conferenza in lingua, l’amichevole in famiglia (bagnata con facile gol, due mesi più tardi), la mitografia della villa sopra i colli, dietro la Gran Madre. L’esordio a Verona contro il Chievo, la paura e il ribaltamento: il “ragazzo nuovo” con la maglia numero 7 non ha le spalle strette, visto da vicino ha un passo diverso dagli altri, che capiscono poco l’alieno e il suo linguaggio sportivo. Quando arriverà il primo gol? Contro il Sassuolo: facile, ma necessario a radicare quel “siuuu” collettivo che stava per diventare il motivo di trasferte lunghe centinaia di chilometri. Ne seguirono a carrettate, balistico con l’Empoli e volando contro la Sampdoria, quando ha sfidato le leggi di sospensione di un corpo nell’aria; ma anche dai paraggi dell’area piccola e da fermo, senza peraltro mai incantare su punizione (che calciava per diritto divino, anche togliendole allo specialista Pjanić).
I cinici osserveranno il palmarès, ghigneranno alle uscite in serie contro Ajax, Porto e Olympique Lione, diranno che se l’aspettavano, di un 36enne che di punto in bianco – lui o il famelico procuratore Mendes? A quando la riforma del loro ruolo? - decide che stare a Torino non gli va più bene.
Ma cosa diranno i bambini degli anni Duemila e passa, vestiti con le maglie Jeep numero 7 da padri che hanno vissuto Del Piero, da nonni platinisti e bonipertiani? Chi lo spiegherà, ai loro occhi dell’amore puro e incondizionato, che quel dispenser di felicità e inconscia ebbrezza incontrerà altri sguardi lassù a Manchester, lasciando in terra la sgradevole sensazione dell’abbandono e del ridimensionamento? Forse le vittorie, gran mediche, faranno l’abitudine. Ma non sarà più la stessa cosa: pure il giornale leggeremo male, il suo nome sarà sul cartellone che fa della pubblicità, e col naso in su la testa ci sbatteremo. Sempre là, sempre lui. Vattene amore, che siamo ancora in tempo.