Il Foglio sportivo
Il Chievo riparte da zero per tornare "Céo". Parla Pellissier
Nuovo inizio, vecchia scuola. Il club veronese è fallito, l’ex capitano racconta come proverà a rilanciare i gialloblù. Dalla 3a categoria
Avviso ai nostalgici. Di tutto il frasario funebre che tanto è in voga nell’epica sportiva, risparmiatevi questa: la favola Chievo non ha lieto fine. “Quello c’è stato da un pezzo. Ormai si trattava di una realtà storicizzata e normalizzata, con tutti i suoi problemi”. Se lo dice Sergio Pellissier c’è da fidarsi. Del vecchio Céo, come lo chiamano a Verona, è rimasto solo lui. Mica poco, in verità: 517 presenze e 139 gol in maglia gialloblù – solo Bruno Vantini fece meglio, ma nell’èra dei dilettanti – nell’arco di 17 stagioni. Poi altre due da dirigente, “dove ho potuto constatare con mano quanto fossero cambiate le cose”. Anticipando il corso degli eventi: a fine maggio l’ex capitano lascia, un paio di mesi più tardi l’Ac ChievoVerona sprofonda in 44,2 milioni di debiti e cessa di esistere. “O quasi, ma fa tutta la differenza del mondo: ripartiamo da zero in Terza Categoria”.
Non è l’estate che si aspettava Pellissier. A 42 anni è appena diventato direttore generale del Rovigo – “Prima Categoria Veneto, continuerò a dare tutto anche lì” – per iniziare a costruirsi quella vita oltre l’Adige che l’aveva accolto ragazzino. Ma un po’ come quei luoghi della letteratura da cui non si riesce mai a partire davvero, c’è stato l’estremo richiamo di casa: “Ho sperato fino all’ultimo che fosse un incubo”, lo storico attaccante inizia a raccontare al Foglio Sportivo. “Poi, dopo l’ultimo ricorso respinto, mi è balenata l’idea: perduto il professionismo, riuscire a iscriversi in Serie D sarebbe stata un’impresa. Dovevo provarci”. È stata una corsa contro il tempo: “Poco più di una settimana per offrire garanzie e raccogliere i fondi necessari”. L’affetto dei veterani c’è ma non è bastato: “Con me ci sarà Enzo Zanin, 35 anni in gialloblù da portiere e dirigente. Non faccio altri nomi per non dimenticare qualcuno. La questione ha toccato un po’ tutti, anche vecchi compagni di squadra che si sono fatti avanti per dare il loro contributo. Altri però si sono preoccupati della reputazione: io non ho problemi a fare brutte figure. E non ce la facevo a vedere il nome del Chievo fuori dal calcio”.
Mentre parla si sente il vento di un lungomare pugliese: “I miei unici giorni di pausa. Appena torno c’è tanto di quel lavoro…”. Pellissier sorride. L’entusiasmo di Via dei matti numero zero: “Non c’è il settore giovanile, mancano i giocatori, dobbiamo trovare un nuovo gruppo di lavoro e tutte le strutture”, perché anche Veronello, roccaforte clivense a due passi da Gardaland, era in affitto. “Serviranno ragazzi che scelgano noi, e siano pronti a farlo all’ultimo secondo: a settembre i campionati ricominciano”. Uno solo l’obiettivo del neonato FC Chievo 1929: “Ricreare dal niente una società sana e onesta, diversa dalle altre. Com’era una volta”.
Si apre il vaso di Pandora. “Mai avrei gestito la situazione come altri hanno fatto in questi ultimi anni”, dice Pellissier, ora con freddezza: “Il mio Chievo non potrà rischiare di fallire, non iscriversi in campionato e scomparire. Guai a fare il passo più lungo della gamba. Meglio retrocedere sul campo”. La particolarità della parabola gialloblù è l’assenza di cambi al timone: dal 1992 a oggi, dalla Champions League al crac, il presidente è sempre stato il patron della Paluani Luca Campedelli. Che nei giorni scorsi si è sfogato a Repubblica: il calcio vive di debiti, ma paga solo il Chievo. “È dura, non c’è dubbio. Lui ha ragione a dire che la Figc è intervenuta su dinamiche trascinate nel tempo. E che a partire dai grandi club quasi nessuno ha i conti in ordine”, spiega il suo vecchio goleador. “Però ci sono anche società sane, capaci ogni anno di superarsi: il nuovo Chievo è il Cittadella”, che ha accarezzato la Serie A anche l’ultima stagione. “Quelli sono i punti di riferimento. Inutile guardare al Barça o al Psg. Ai privilegi delle cosiddette too big to fail. Una società di calcio dev’essere gestita secondo i criteri economici di qualsiasi azienda: nel resto del mondo per un euro di debito ti fanno chiudere. Ed è giusto così”.
Pellissier e Campedelli ormai non si sentono più. Quando è stato l’inizio della fine? “Più che a una data penso a una persona”, riflette Sergio: “L’addio di Giovanni Sartori da direttore sportivo”. Perché dietro ai miracoli c’è spesso un genio: a lui si deve la scalata fino alla Serie A, le intuizioni di mercato, i Corini, Perrotta, Amauri. Poi, dopo oltre vent’anni, nel 2014 si dimette dal Chievo e viene ingaggiato dall’Atalanta. “Che non sia crollato tutto subito è fisiologico: il patrimonio tecnico dura e si diffonde. Ma è stata la fine di un ciclo, avremmo dovuto sentire puzza di bruciato già allora. Guardate come un professionista simile ha trasformato il calcio a Bergamo. E guardate dove siamo noi, oggi”.
Anche nell’immaginario collettivo il disco si è fermato al rusticismo di Gigi Delneri, alla neopromossa di quartiere quasi campione d’inverno. Esattamente, cosa voleva dire Chievo? “Affetto diretto ogni giorno, tifosi che non si lamentano mai, allenamenti senza contestazioni. E un presidente”, quello dei primi tempi, sottolinea, “che ti trattava come uno di famiglia, mentre i vecchi dello spogliatoio trasmettevano un’eredità sportiva nata sui campi di provincia. Non si pensava mai a premi o stipendi – i più bassi di tutta la Serie A – ma solo al gruppo. Alla voglia di giocare”. Quanto sopra in un solo episodio: “Una volta contro la Juve, sarà stato nel 2005, mi annullarono un gol regolare, per giunta decisivo”. Bomba di Pellissier, Buffon battuto, traversa-terra-traversa: tutti si accorgono che il pallone è entrato. Tranne il guardalinee: “A fine partita mi chiese scusa e Campedelli gli disse di non preoccuparsi: certo dà fastidio, ma gli errori capitano a tutti”. Otto anni più tardi, stessa scena e stesse squadre: di Paloschi il gol non ravveduto, altro fair play del presidente. “Questo era l’atteggiamento da Chievo. Una società rispettosa con tutti, che non cercava alibi. E infatti i risultati arrivavano comunque. Avete visto invece quest’anno, com’è sbottato Campedelli dopo le polemiche arbitrali contro il Monza? Dimostra il cambiamento che non mi è mai andato giù”.
Poi un bellissimo lapsus clivense: vogliamo far parlare Pellissier di altri gol – mica giusto, su 112 segnati in Serie A, limitarsi all’unico non convalidato! – e lui inizia a ricordare quelli dell’unica stagione in cadetteria, 22 nel 2007/08. “Uno più importante dell’altro: ci vergognavamo di quella retrocessione. Mi sono sempre sentito più tifoso che calciatore ed è stata una liberazione riscattarsi. L’anno dopo a Natale ci davano per spacciati”, 9 punti nelle prime 17 giornate. “Invece ci siamo salvati alla penultima”, e allora sì, ecco come un fiume “la tripletta in casa della Juventus, le due reti alla Lazio, il brivido di segnare all’Inter all’ultimo secondo. O quello in Nazionale, grazie Lippi. Per fortuna posso dirne una marea. Ma forse il momento più speciale di tutti me lo riservò San Siro: una standing ovation come quelle che spettano a pochi. Baggio, Totti. Non ero un fuoriclasse come loro, ma il pubblico apprezzò. Quello che ho dato al calcio è stato solo con le mie forze, imparando da tutti gli allenatori”.
E da qualche speciale avversario. Sergio li ripercorre, sembra descrivere sé stesso: “Le bandiere di una volta, quelle rimaste fino alla fine per poi venire costrette ad allontanarsi”. Del Piero, il primo Maldini, lo stesso Totti. “Solo a Zanetti è andata bene. Oggi i bambini mica hanno smesso di sognare: sono le società a non volere più l’ingombro del simbolo. Non esistono più i Moratti, i Sensi. Il club è pura fonte di guadagno”.
Gli scappa un ‘boh’. “Anche il Chievo era diventato antipatico. Dobbiamo tornare ad appassionare, a far capire che con il lavoro tutto è possibile. Come ha insegnato il vecchio Céo: non sarà la società di Pellissier, ma una realtà aperta. A tutti coloro che le vogliono bene. Ci sarete anche voi?”