La vera lezione di questa Nazionale alla nazione è la continuità, non la vittoria
Dopo Euro 2020 siamo partiti con il più antico tra gli sport nazionali: le mani avanti, la preparazione al peggio, la scorciatoia. Quel che il gruppo di Roberto Mancini può insegnare a tutti noi
Se l’Italia (Nazionale) è lo specchio dell’Italia (nazione) non siamo messi bene. No, non tanto per il comportamento sul campo del commissario tecnico Roberto Mancini e dei giocatori che hanno fatto bene, in questo settembre di ripresa dopo i fasti di Wembley con la vittoria dell’Europeo 2020. Certo, non hanno battuto Bulgaria e Svizzera, ma chi mastica un po’ di calcio sa che tutto si gioca negli episodi, un rigore sbagliato, un paio di gol falliti davanti al portiere. Può succedere. No, qui si parla del pensiero che ha subito accompagnato questi non-successi, un pensiero che testimonia del nostro piccolo cabotaggio. In questo Bel Paese passiamo con estrema facilità dalla sensazione di una grandeur che non ci appartiene alla depressione e alla paura esageratamente esaltate. Purtroppo non succede solo nel calcio.
Parlando di pallone è successo questo. Abbiamo vinto l’Europeo, abbiamo visto i nostri sfilare per Roma (tra le polemiche) dal Quirinale a Palazzo Chigi, da Sergio Mattarella a Mario Draghi. Felicità e orgoglio. Poi tutti in vacanza. In questa breve estate calda abbiamo letto paragoni forti, come quello che ci accostava alla Spagna che vinse l’Europeo del 2008 e poi il Mondiale del 2010. Un po’ troppo, malgrado almeno una somiglianza tra le due squadre: come quella Spagna anche questa Italia non ha un centravanti, per lo meno uno che faccia la differenza. Però, per un breve e intenso momento, tra una sdraio e uno spritz, abbiamo sognato il “doble”, cioè dopo l’Europeo il Mondiale novembrino in Qatar, senza renderci conto che all’Europeo non eravamo i più forti ma siamo stati i più bravi. C’erano squadre superiori, ma Mancini e il suo staff hanno creato un ambiente da squadra di club, valorizzato giocatori che in campionato facevano le riserve e tutti hanno dato il loro contributo al massimo delle loro possibilità. Questo sarebbe stato il senso da cogliere in quella meravigliosa notte inglese. Cioè un’unità di intenti e una partecipazione collettiva, buon punto di partenza, soprattutto perché se c’è, al di là dei risultati, ci si può sempre lavorare. All’Italia (paese) manca proprio questa coesione sociale, questo mettere da parte il proprio “io” per pronunciare un corale “noi”. Poi vittorie e sconfitte si giocano su un calcio di rigore, un pallone svirgolato, un fuorigioco millimetrico individuato dalla Var.
Non è da questi particolari che si deve giudicare una Nazionale (e una nazione), ma dal punto di partenza.
Questo sarebbe stato un ragionamento onesto e realista. Invece, dopo i due pareggi con Bulgaria e Svizzera, siamo passati, noi sulle tribune (vere o virtuali), tifosi e commentatori – per fortuna Mancini e i calciatori sono andati per la loro strada – direttamente dal “doble” Europeo-Mondiale al terrore di non arrivarci nemmeno in Qatar, per il torneo più astruso della storia. Invece di pensare a noi stessi e a fare quello che ci compete, abbiamo cominciato ad attendere con ansia il risultato della Svizzera con l’Irlanda del nord e a far di conto con la differenza reti, come se lo scontro diretto con gli elvetici non potessimo vincerlo. Insomma, siamo partiti con il più antico tra gli sport nazionali: le mani avanti, la preparazione al peggio, la scorciatoia. Mai guardare in alto, sempre in basso, mai pensare al meglio, sempre ingegnarsi a come rintuzzare il peggio. Ecco il piccolo cabotaggio di cui parlavamo, che testimonia l’assenza di un serio e positivo realismo e l’incapacità di un vero ottimismo fondato sulla ragione e non sull’entusiasmo fine a se stesso. Il vero insegnamento di questa Nazionale alla nazione è la continuità non la vittoria.