Il talento e l'inquietudine. Gli 80 anni di Italo Zilioli
Nei primi anni Sessanta il fantasma di Coppi continuava, e sarebbe continuato ancora per anni e anni, ad aleggiare sul ciclismo italiano. Fu in quegli anni che il corridore torinese iniziò a correre, a vincere, a far credere che un nuovo Campionissimo fosse possibile
Estate 1963. La stagione ciclistica volge al termine. Un giovane neoprofessionista torinese non ancora ventiduenne nel breve giro di due settimane stravince in tre corse, tre corse di quelle che un tempo facevano ricco il palmarès dei campioni. Il 18 agosto, la Tre Valli Varesine; il 19 agosto, il Giro del Veneto; il 1° settembre, il Giro dell’Appennino. E non è finita lì: di lì a un mese, il 4 ottobre, arriva primo anche al Giro dell’Emilia, e negli ultimi scampoli di calendario è secondo al Giro del Piemonte e quinto al Lombardia.
È come se un lampo tornasse a incendiare la passione dei suiveur italiani, che, a ormai più di tre anni dalla scomparsa, si sentono ancora orfani di Fausto Coppi. Quel ragazzo torinese sembra rievocarne l’immagine. La sua faccia è da ragazzo, la sua maglia è bianconera, il suo nome è Italo Zilioli. Allora come adesso, i giornali fanno titoloni e i giornalisti giocano al rilancio. Uno di loro, Giuliano Califano, cronista di “Tuttosport”, a fine anno pubblica quello che oggi si direbbe un instant book. E lo intitola Ho visto nascere l’erede di Coppi: Italo Zilioli.
Nei primi anni Sessanta il fantasma del Campionissimo continuava, e sarebbe continuato ancora per anni e anni, ad aleggiare e ad abitare i sogni di chi avrebbe creduto nella sua reincarnazione e si sarebbe volentieri illuso di scorgere qualche somiglianza nel colpo di pedale, nella postura in sella, in una smorfia del viso o nell’impenetrabilità del carattere. Erano solo indizi che non reggevano la prova del mito.
Quel mito, il “suo” mito – come di molti altri – Italo Zilioli l’aveva visto da ragazzino, per le vie di Torino al termine di una corsa, e lo aveva affiancato in bicicletta, pedalando nel controviale, mentre il Campionissimo fendeva la folla al centro della strada. Si sarebbe forse potuto fin da allora capire da questo che il centro della strada, e della scena, non erano fatti per lui. Qualche anno più tardi, quando, diciottenne e promettente allievo, per volere di Vincenzo Giacotto, general manager della Carpano, Italo venne assunto con funzioni di piccolo lavoro di segreteria nell’amministrazione della squadra corse, gli era addirittura capitato di ricevere una telefonata dal Campionissimo che chiedeva proprio di Giacotto. Ad ascoltare quella voce dall’altra parte della cornetta, per l’emozione, come spesso gli succedeva – e gli sarebbe ancora successo più volte – andò in confusione. Riuscì comunque a riferire il messaggio al capo.
In sella il giovane Zilioli era montato per la prima volta intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando il Grande Airone imboccava un sempre più intristito viale del tramonto, e tuttavia ancora ignaro del beffardo e tragico finale che di lì a poco l’avrebbe rapito al mondo. Figlio di bergamaschi della val Seriana emigrati sul finire degli anni Trenta nella dura Torino industriale, Zilioli passò presto dalle gite fuori porta con gli amici, a “tirarsi il collo” sulle prime colline torinesi, alle prima corse da esordiente, e poi da allievo, e infine da dilettante, alla scuola di Tolmino Gios, che ne riconobbe la stoffa. Passo svelto ed elegante, resistenza allo sforzo, brillante spunto in salita. Così che si fece notare appunto anche da Giacotto, che lo prese paternamente sotto la sua ala protettrice, assicurandogli dapprima nella storica azienda di vermouth un posto fisso di lavoro che gli lasciasse il tempo necessario agli allenamenti e alle gare da dilettane, e poi, alla fine della stagione 1962, facendolo esordire tra i professionisti con la maglia bianconera, la stessa che per un paio d’anni (1956 e 1957) era stata anche del Campionissimo.
Il raffronto col Grande Airone, insidioso, arrivò addosso a Zilioli dopo la vittoria al Giro dell’Appennino del ‘63, quando, sulla Bocchetta, fece perdere le sue tracce agli inseguitori, a Ronchini e a Durante, a De Rosso e a Balmamion, e arrivò solo al traguardo. Solo, su quella salita, e su quel traguardo, come otto anni prima, nel 1955, Fausto Coppi, alla sua ultima fuga e al suo ultimo successo di prestigio prima che calasse il lento ma inesorabile sipario. Quella vittoria del 1° settembre del 1963 a Pontedecimo sembrava un segno.
Ma a differenza delle aspettative, i segni non furono quasi mai di gloria. Sarebbe mancato sempre un qualcosa, nella carriera di Italo Zilioli, per farne un asso del pedale. Tre volte secondo al Giro d’Italia (1964, 1965, 1966), un’altra volta terzo (1969), cinque vittorie di tappa, ma senza mai indossare la maglia rosa; una tappa e sei giorni in maglia gialla al Tour del 1970; e poi decine e decine di vittorie – la Coppa Sabatini, la Coppa Agostoni e un altro Giro del Veneto nel 1964, il Gran Premio di Zurigo nel 1966, il Giro di Campania nel 1968, la Settimana Catalana, il Giro delle Marche e il Giro del Piemonte nel 1970, il Trofeo Laigueglia e la Tirreno-Adriatico nel 1971, la Coppa Placci e un altro Giro dell’Appennino nel 1973 – molte delle quali con numeri di alta scuola, ma mai nelle corse che “consacrano” un bravo campione nel Gotha dei fuoriclasse indiscusso. Perché il primo a mettere in discussione se stesso è stato proprio lui, Italo. Sarà stata questione di continuità, di regolarità, molti dicono di “cattiveria” agonistica. Un carattere distratto e svagato, o esasperatamente incline al dubbio, all’introspezione, all’indagine di se stesso. Troppe complicazioni in testa e nell’animo per poter andare dritto al successo, senza chiedersi il perché e il percome. Ed è cosi che Zilioli dava il meglio di sé quando non se lo aspettavano gli altri, ma soprattutto quando non se lo aspettava lui stesso. Tutte le volte che si sentiva gli occhi puntati addosso e sentiva essere imminente il momento della conferma concreta del suo talento, le notti della vigilia erano insonni, abitate da visioni angosciose, indecifrabili assilli, se non da funesti presagi. Per anni – 14 stagioni da professionista e 58 vittorie, con dieci maglie diverse per cercare “la libertà di correre senza dover render conto a un capitano”– , gareggiando contro o a fianco a mostri sacri come Anquetil, Gimondi e Merckx, Italo Zilioli ha sofferto di questa sua inadeguatezza al ruolo, preda dello scoramento di non “sentirsi all’altezza” della situazione. Solo col tempo, è riuscito a venire a patti con quei turbamenti, con quella scontrosità, con quella fragilità d’animo che gli hanno gli sono costate non poche vittorie e che, di lui, facevano scrivere a un grande indagatore di umanità, sportiva e non solo, come Sergio Zavoli, che "a prima vista non sembra per niente adatto al mestiere che fa".
Ma è proprio per questa singolarità che oggi, a distanza di cinquanta, o sessant’anni, il popolo del ciclismo continua a ricordarsi di lui, della sua talentuosa inquietudine. Quella che gli riconoscono gli stessi compagni di corsa, primo fra tutti Eddy Merckx, amico fraterno - "al telefono ci sentiamo almeno un paio di volte la settimana" - da quel giorno che Zilioli se se lo vide sfrecciare a velocità doppia nell’ultimo chilometro della tappa del Blockhaus, al Giro del 1967, che prefigurò al mondo che il velocista belga sarebbe diventato il Cannibale divoratore di corse e avversari.
Se l’epoca d’oro del ciclismo anni 60-70 fosse un film, Italo Zilioli sarebbe d’ufficio candidato all’Oscar di miglior attore non protagonista. Di quelli con il quale tutte le grandi star amano lavorare Forse è proprio grazie alla suo essere “diversamente campione” che oggi, 24 settembre 2021, siamo qui a festeggiare il suo compleanno più rotondo. Rotondo come due ruote di bicicletta. Auguri, Italo!
Il Foglio sportivo - In corpore sano