Il foglio sportivo
Quella sporca dozzina alla Ryder Cup
Europa e Usa si giocano il torneo di golf più spietato. Aspettando Roma
Un prato, un bastone, una pallina, un sottile soffio di vento che potrebbe cambiare tutto e migliaia di occhi addosso e quel green che laggiù sembra sempre più piccolo, il whatever it takes della Ryder Cup accade sempre la domenica pomeriggio, dopo tre giorni di duelli, quando a un solo giocatore tocca il colpo decisivo, quello che decide su che lato dell’Atlantico finirà la coppa. Il padre di tutti i colpi è il ferro due di Christy O’Connor Jnr alla diciotto di The Belfry nel 1989, il segno della croce, lo sguardo verso il cielo, una vittoria insperata contro Fred Couples. Un momento indelebile nella storia della Ryder Cup, come gli urli di Jan Poulter a Medinah, i miracoli di Ballesteros a Valderrama o il colpo concesso la Jack Nicklaus a Tony Jacklin nello storico pareggio di Royal Birkdale e ancora la folla roboante a Kiwah Island nei giorni della Guerra del Golfo o il putt di 15 metri imbucato da Justin Leonard per dare la vittoria agli americani nella Battle of Brookline. Un secolo di grandi duelli per portare a casa una piccola coppa d’oro che ha in cima la sagoma di Henry Abraham Mitchell, golfista inglese degli anni Venti e maestro di Samuel Ryder, l’uomo che un giorno decise di inventare una delle competizioni più belle al mondo. Quella che trasforma un gioco individuale in uno sport di squadra, quella che più di ogni altra gara simboleggia i valori più nobili e antichi dello sport, l’unica in cui l’Europa dimentica i confini e diventa una nazionale.
Dodici contro dodici, senza premi e solo per la gloria. Sono passati tre anni da quel pomeriggio a Parigi, un’Europa fortissima, la grande onda blu che aveva travolto gli Stati Uniti e vinto la coppa per la quattordicesima volta. Sembra un secolo fa, il grave incidente Tiger Woods, la progressione di Jon Rahm e la crisi di Francesco Molinari, dopo l’errore alla 12 di Augusta non si è più ripreso ma quel giorno in Francia fece il punto decisivo contro Phil Mickelson. Ero seduto a pochi metri dal green e ricordo un boato come in nessun altro stadio al mondo, se non la vedi non puoi immaginarti il tifo. In Italia la Ryder Cup è ancora un sentito dire ma nel mondo è la seconda competizione sportiva più seguita e per noi una grande occasione in vista del 2023 quando si giocherà a Roma, al Marco Simone Golf & Country Club e speriamo con qualche italiano nella squadra europea. Certo i nostri quest’anno non hanno brillato, alcuni sprazzi ma poca continuità, Guido Migliozzi una buona stagione coronata dal quarto posto allo US Open, Francesco Laporta sesto dieci giorni fa a Wentworth e poi Edoardo Molinari tornato a giocare a livelli discreti ma senza fiammate, nemmeno un italiano in squadra ma il sistema funziona e speriamo in un futuro più azzurro anche se qui non siamo per niente nazionalisti e in Ryder Cup tifiamo tutti per l’Europa.
La sporca dozzina americana è capitanata da Steve Stricker, sei wild card da aggiungere ai qualificati Morikawa, Johnson, DeChambeau, Koepka, Thomas e Cantlay, fresco vincitore del circuito americano. Mai un capitano ha avuto tanto potere, ma Stricker ha fatto scelte conservative, ha seguito il ranking (a parte Scottie Scheffler preferito a Patrick Reed, il più polemico del gruppo, una scelta che potrebbe rivelarsi decisiva). Gli Stati Uniti sono una vera corazzata e l’Europa sulla carta è più debole, solo 5 europei tra i primi 25 nella classifica mondiale, è un dato importante ma si sa che in Ryder non contano le classifiche. Si gioca a Whistling Straits in Wisconsin sul lago Michigan, è un campo in stile links scozzese tutto sull’acqua e gli europei, in caso di pioggia e vento forte, potrebbero avere delle carte in più. La Brexit qui non vale e in squadra ci sono sei inglesi, Fleetwood, Hatton, Fitzpatrick, Casey, Westwood, Poulter e due figli della terra d’Irlanda, Rory McIlroy e Shane Lowry, ottima wild card del capitano Pádraig Harrington, insieme a Sergio Garcia, ideale spalla dell’altro spagnolo Jon Rahm e due rookie, il fortissimo norvegese Victor Hovland e il solido austriaco Bernd Wiesberger.
Un team a trazione britannica che potrebbe anche riuscire a sbancare fuori casa. Il resto è tutto ignoto, il golf è uno degli sport più imprevedibili, un instabile equilibrio tra tecnica, forza fisica e psicologia. Un gioco tra i più spietati, basta un errore e la coppa se ne va. E poi, è il bello di questa sfida, in Ryder Cup conta il gioco di squadra, far punti nei primi giorni, quando si gioca in coppia, nei foursome e nei fourball, dove molto dipende dall’amalgama dei giocatori che alternano i colpi e da quanti punti portano a casa in vista della domenica, il giorno dei giorni, la roulette dei singoli. Dodici contro dodici, duecentosedici buche fino all’ultimo colpo, quello che non ti aspetti, a seguire la traiettoria dell’ultima pallina, quando speriamo di poter urlare tutti assieme, per la prima volta in un secolo di golf, il nostro ennesimo it’s coming to Rome.