il foglio sportivo
Roma e il derby deromanizzato
Mourinho contro Sarri, ma senza romani per la prima volta dal 1966. Cosa aspettarsi domenica all'Olimpico
Con Pellegrini squalificato, la speranza che il 192esimo derby di Roma abbia almeno una stilla di romanità nei ventidue titolari è appesa a due insospettabili: Danilo Cataldi e Riccardo Calafiori. Sulla carta sono riserve, alle spalle dei titolari Lucas Leiva e Viña (che però è in dubbio): se partiranno dalla panchina, sarà la prima volta in campionato senza romani titolari dal 23 ottobre 1966, quando il più vicino a Piazza San Pietro tra i presenti era stato “il Barone” Paolo Carosi, numero 4 biancoceleste nato a Tivoli.
Eppure Roma sarà presente, Roma sarà ovunque, nel pubblico che tornerà all’Olimpico dopo i due derby nel deserto della scorsa stagione, nella campagna elettorale più mitomane e isterica che si ricordi, nei cinghiali che scorrazzano alla Balduina preda di mille smartphone che si affrettano a pubblicare tutto sui social. Lazio-Roma arriva molto presto, si gioca alle sei di un pomeriggio di fine settembre quando il Foro Italico si colora di splendidi tramonti e passa tra le mani di altri due forestieri, un portoghese e un toscano arrivati in città da meno di tre mesi.
E Mourinho ha capito Roma più velocemente di Sarri: la decadenza irrefrenabile della città si sposa stupendamente con il dolce declino del portoghese, e d’altra parte il fil-rouge della narrazione romanista, sempre in cerca di nuovi profeti di cui innamorarsi perdutamente, era mourinhismo in nuce prima ancora che arrivasse Mourinho, che per il momento gioca ancora a parlare sottovoce ma ha già trovato una quadra apprezzabile. Invece Sarri, nonostante abbia quattro anni in più del rivale, sembra frenato dal suo stesso fuoco, misto al veleno per essere stato scaricato prima dal Chelsea e poi dalla Juventus nonostante un’Europa League e uno scudetto. Dopo un inizio incoraggiante, la Lazio è attualmente nel pieno di una delle sue tipiche crisi di rigetto, quelle in cui di norma un allenatore con poca fiducia inizia a sospettare che la smania di rientrare nel giro gli abbia fatto sovrastimare una rosa con evidenti lacune, certamente inadatta per questo 4-3-3 troppo sbilanciato in cui Luis Alberto e Milinkovic-Savic non possono giocare contemporaneamente da mezzali. S’impone una svolta tattica, e s’imporrà a prescindere dal derby che però condizionerà per forza umori, attitudini e scenari futuri.
Sarri rischia? Certo che no: non con quel che costa, e perché sarebbe un capro espiatorio troppo ingombrante visto il non-mercato che gli hanno lasciato Lotito e Tare, insufficiente per fare la rivoluzione. Nell’attesa di qualcosa che non si sa se arriverà, Sarri deve temere non tanto sé stesso, quanto i sostenitori che soffiano incessantemente dalla sua parte, alimentano il mito del Comandante, promettono scenari da paradiso (che d’altra parte è biancoceleste) e rendono devastanti quelle che sono normali scosse d’assestamento come la sconfitta col Milan o il faticoso 1-1 a Torino. Come diceva Woody Allen: “Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi spaventa”.
E facce vedé ‘sto sarrismo!, sbuffa già qualcuno, spazientito dalla squalifica che nell’ultima settimana ha impedito a Sarri di presentarsi ai microfoni, delegando le comunicazioni al vice Martusciello. L’uomo ripete che serve tempo, è sinceramente stufo di questo calcio molecolare in cui la verità assoluta sta in ogni singola azione e ogni partita è giudicata come se fosse l’ultima. Chiedere calma e tempo, a Roma: come direbbe Pino D’Angiò, che idea! Mourinho invece fa surf, cerca di ottenere le stesse cose in maniera molto meno trafelata, dà anche qualcosa in cambio, alimenta sogni di fine estate con gratuite passerelle sotto la Sud, non rinuncia a raccontare una storia che intrattenga quelli che osservano i lavori in corso: insomma, è più paraculo. Non c’è niente di male, eh: persino la sconfitta di Verona – oggettivamente un po’ balorda – ha tirato acqua al mulino del “basso profilo”, secondo la vieta retorica che vuole Roma ambiente difficilissimo da portare al successo perché troppo emotivo. È decadenza anche questa, l’accontentarsi del piazzamento che sembra leggersi in controluce nella faccia pacificata di Mourinho, o è solo l’ultimo geniale travestimento del Diavolo di Setúbal?
Gli exit poll del campionato, ancora parzialissimi, dicono che la Roma ha tanti sbocchi offensivi, forse troppi, dal convalescente Zaniolo al redivivo El Shaarawy passando per le galoppate di Shomurodov e ovviamente per il gigante Abraham: tutte le strade portano a Roma (Mourinho ha in rosa giocatori di cinque continenti diversi: un giorno, magari, li schiererà tutti insieme). La Lazio invece è votata all’Immobilismo nel senso più nobile del termine: non ha altro affaccio sul mare all’infuori di Ciro, che nel rendimento opposto tra la Nazionale e il club è l’ideale prosecuzione della genìa dei Chinaglia, Bruno Giordano, Beppe Signori, tutti sfortunati o sottovalutati in azzurro ed eroi in biancoceleste. Da vero laziale ha nella fatica e nella scaltrezza due regole di sopravvivenza: Immobile guarda la porta dal basso, con la sensazione che ogni pallone sbattuto in fondo al sacco ancora non basti per guadagnarsi pienamente il rispetto che merita un centravanti da 100 gol negli ultimi quattro campionati. Il contrasto estetico con il flessuoso Abraham è impietoso. Un altro aspetto che non aiuta a prendere Immobile troppo sul serio è la poca varietà della sua produzione offensiva: molti suoi gol sono perfettamente sovrapponibili, scatto sul filo del fuorigioco e destro secco nell’angolino, oppure deviazione assassina sul secondo palo al culmine di schemi e movimenti cesellati con pazienza negli anni di Simone Inzaghi, e a cui Sarri si sta aggrappando volentieri. Un cannoniere molto seriale e molto laziale, che non a caso due anni fa ha battagliato con Lewandowski, un altro che produce gol a raffica come un operaio alla catena di montaggio: per lui difficilmente si sdilinquiranno i cantori del calcio romantico che per qualche strano motivo, a Roma, si identifica sempre nella Roma.
A proposito, uno dei tanti motivi di malanimo dei laziali nei confronti della parte avversa della città, verso la quale esercitano un sarcasmo sornione e inarrivabile, è il poco spazio che i media riservarono nel 2020 alla Scarpa d’Oro di Immobile: “L’avesse vinta Totti...”. Ebbene. Già in fuga nella classifica marcatori, con sei gol in cinque giornate, Immobile è arrivato a 161 reti in Serie A: presto sorpasserà Boninsegna a quota 163, ma a soli 31 anni, mantenendo questi ritmi da 25 gol a stagione, Ciro può arrivare molto più in alto. Magari al secondo posto della classifica all-time, dove a quota 250 troneggia il più grande calciatore della storia di Roma, secondo solo a Silvio Piola. 89 gol di distanza, distacco colmabile in quattro stagioni fatte bene: vuoi vedere che Immobile prenderà Totti? Che idea.