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il mondo delle biciclette nelle Fiandre

Un Alaphilippe Mondiale

Giovanni Battistuzzi

Il francese sapeva benissimo che il percorso di oggi era un invito irrinunciabile alla mattata. La sua azione dovrebbe spegnere il nazionalismo ciclistico in favore di un internazionalismo biciclettaro. Quello che spinge a fregarsene della nazionalità e di godere della meraviglia dell’azione solitaria

Julian Alaphilippe è un accumulo ciclistico. È una sommatoria che tende all’esponenziale. È barocco, quasi rococò, se ne frega della pulizia, della miseria del calcolo per sottrazione. Se non basta uno scatto ne fa due. Se non ne bastano due, ne fa quattro. Se non ne bastano quattro ne fa sedici. Prima o poi quello buono si palesa nel miglior modo possibile, quello che si stringe nella meraviglia della solitudine, del nulla attorno, dell’uomo solo al comando.

A Lovanio, al Mondiale di ciclismo 2021, la solitudine l’ha cercata a una cinquantina di chilometri dall’arrivo. L’ha trovata a ventidue chilometri dalla conclusione. Nel mezzo trenta chilometri di attese e tentativi, di strappi trasformati in prosceni, in abbozzi di soliloqui. Sapeva benissimo il francese che non poteva che andare così, che un percorso del genere era un invito irrinunciabile alla mattata. Quella che scombina i piani, che accende le speranze, che spegne il nazionalismo ciclistico in favore di un internazionalismo biciclettaro. Quello che spinge a fregarsene della nazionalità dell’uomo in testa e di godere della meraviglia dell’azione solitaria.

Julian Alaphilippe è un patrimonio a pedali. Il suo passaporto dovrebbe essere del tutto ininfluente.

L’hanno capito i più. Qualche insulto c’è stato. Ma si sa, i parvernu delle pedivelle sono aumentati in questi ultimi anni. Peccato. Non ti curàr di lór, ma guarda e passa.

 

Julian Alaphilippe oggi ha fatto voglia a chiunque di cantare la Marsigliese, perché certe azioni sono internazionali, rientrano all’interno di un patrimonio comune che non dovrebbe avere confine. Allons enfants de la Patrie. Le jour de gloire est arrivé!

Allo stesso modo di chi alla sua destra è salito sul podio. Dylan Van Baarle ha concluso il Mondiale al secondo posto. E l’ha fatto dopo una stagione nella quale, al solito, si è sacrificato per qualsivoglia capitano. Ha avuto carta (semi)bianca una volta, alla Dwars door Vlaanderen, e ha vinto.

L’olandese è un socialista della bicicletta. Per lui il bene comune ha un valore maggiore di quello personale. Corre perché non può farne a meno. Sa di non essere un fenomeno e per questo si mette a disposizione. Al contrario dei fenomeni però è un corridore che va forte da marzo a ottobre, una garanzia e un’assicurazione per i suoi capitani. Per questo è dal 2015 che ogni squadra in cui ha corso lo ha schierato al via della più importante corsa al mondo, il Tour de France (nel 2018 avrebbe dovuto prendere il via, poi un problema a un ginocchio lo ha tolto di mezzo). La medaglia di argento nelle Fiandre non è un premio alla carriera, è giustizia sociale.

Van Baarle oggi non avrebbe mai potuto battere Alaphilippe, lo sapeva lui per primo, è stato evidente a tutti. Anche perché battere il francese oggi era qualcosa di quasi impossibile. Il successo se l’è autoprodotto, ha realizzato da solo, oltre ogni ragionevole dubbio. E sapeva benissimo che se là davanti ci fosse stato Mathieu van der Poel avrebbe lavorato per lui. Van der Poel però non c’era. E lui ha saputo cogliere l’attimo giusto, quello che spesso è concesso ai non favoriti quando uno di questi ha preso il largo e gli altri si guardano in cagnesco per capire chi sarà il primo dei battuti.

Van der Poel ha chiuso ottavo, Sonny Colbrelli decimo, Wout van Aert undicesimo. Due o quattro posizioni più avanti non avrebbe fatto differenza. Nessuno è riuscito a tenere la ruota di Alaphilippe e questo è quanto. Gli ordini di arrivo non si riempiono per pedigree. Non è stato però un fallimento. Seguire il francese era cosa difficilissima. Non hanno avuto gamba per tenergli la ruota. Succede.

 

Al di là del risultato finale, Belgio, Francia e Italia oggi hanno dato dimostrazione di come si corre una gara ciclistica. Hanno onorato la corsa, l’hanno resa meravigliosa.

Le parole di Eddy Merckx dei giorni scorsi (“Se c’è un solo leader, non dovresti proprio convocare Evenepoel. Corre principalmente per se stesso) hanno pungolato il giusto Remco Evenepoel che oggi pur correndo per se stesso, ha trovato il modo di rendersi utilissimo per la squadra.

L’ultima Italia di Davide Cassani ha fatto quello che doveva fare: attaccato e controllato, si è trovata davanti con tre uomini, hanno rincorso e provato ad agevolare il colpo di Colbrelli. Colpo che non è arrivato, ma tant’è. Non ci sono colpe. A volte le corse vanno così e ci si può fare niente.

O forse sì. Passare il tempo a criticare e non accorgersi della meraviglia andata in scena per le strade del Brabante fiammingo.

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