Gioco e giocatori
Alla fine, la politica è uguale al calcio: non contano gli schemi, ma gli uomini
I recenti successi della Juventus riaccendono il dibattito tra “giochisti” e “risultatisti”. Tutto, in realtà, dipende da chi va in campo
Il calcio è il paradiso degli “spiegatori”, cioè quelli che ti spiegano qualsiasi cosa e, soprattutto, te la spiegano diversamente da come te l’hanno spiegata la settimana prima. Però anche la politica non è molto diversa, anche qua c’è pieno di “spiegatori”. Probabilmente il calcio è una politica giocata con un pallone. Un esempio. La Juventus è tornata a vincere, rimettendo un po’ a posto la sua classifica e invertendo il trend (Nanni Moretti, perdonami) negativo. Le due ultime vittorie, soprattutto, contro i campioni d’Europa del Chelsea con Lukaku in testa e contro il Torino nel derby, sempre una partita “ostica e agnostica”, copyright Arrigo Sacchi, hanno riportato punti e serenità nell’ambiente, aprendo però il tradizionale, irrinunciabile e molestissimo dibattito tra “giochisti” e “risultatisti”, insomma tra chi sostiene che bisogna vincere dando spettacolo e chi (soprattutto dopo aver vinto) afferma che alla fine conta solo il risultato. Mi sento (un po’) di parteggiare per i secondi, non perché non ami lo spettacolo del football, ma perché sono più onesti. I “giochisti”, infatti, sono tali solo se la squadra che fa spettacolo fa anche punti, altrimenti, come tutti, virano sul “risultatismo”, proclamando la crisi della panchina e chiedendo l’esonero dell'allenatore.
La Juventus contro il Chelsea e anche contro il Torino non ha preso gol, basandosi sull’antico assioma: primo non prenderle. Per una squadra in caduta libera, senza Dybala e Morata, cioè i due attaccanti principali, non credo che potesse fare molto diversamente. Max Allegri, allenatore bianconero, ha una vecchia idea: non contano gli schemi, i sistemi di gioco, ma gli uomini che li interpretano. Pensavo a questo concetto intrecciandolo con le elezioni comunali di questo weekend. Ora non so come funzioni a Napoli, Roma o Torino, ne leggo sui media, ma io vivo a Milano e posso parlare solo della città dove risiedo. Salii qui, migrante, dal mio paesello ligure nel 1981. In quarant’anni ho avuto sindaci di centrosinistra (quello vecchio), pentapartitici, della Lega (in purezza, come dicono i sommelier, cioè solo lei), del centrodestra (nuovo), del centrosinistra (nuovo), perfino uno arancione (Pisapia). Invidio quelli che affermano, sicuri: quel sindaco è stato bravissimo, quello, invece, è stato pessimo. Io cittadino medio, non ho notato grandi differenze, almeno in tutto quello che mi tocca da vicino, i servizi essenziali, la vivibilità della città, la qualità della città.
Certo, a Milano costa tutto di più che altrove, ma non credo dipenda dal sindaco. Quello che voglio dire è che la macchina della città, non solo quella comunale, funziona e cinghiali in giro non ne ho ancora incontrati. Credo che, alla fine, dipenda dalla struttura intermedia, dalle risorse umane, dai giocatori, da chi va in campo. Perché sono loro, quelli che affrontano le difficoltà sul terreno, che fanno la differenza. La penso come Platini. Il lavoro dell’allenatore si ferma a bordo campo. Nessuno sceglie undici giocatori e una tattica rinunciataria, nessuno sceglie il catenaccio. Ognuno fa quello che può, come può, con i mezzi e gli uomini che ha a disposizione. Perché è il materiale umano che fa la differenza. A pagare è sempre chi guida, alla fine, perché ha la responsabilità delle scelte. Ma a renderle veramente competitive non è lui. Ogni tanto leggo: l’allenatore con le sostituzioni ha fatto la differenza oppure con le sostituzioni ha sbagliato tutto. Le sostituzioni funzionano se i rimpiazzi si comportano bene. Le decisioni prese dall’allenatore funzionano se chi va in campo è capace di applicarle. Ha ragione Jack Sparrow, di professione pirata dei Caraibi, gli schemi sono più che altro suggerimenti. C’è poco da spiegare.