il foglio del weekend
Rapire la velocità. L'Eroica vista dietro l'obiettivo di un fotografo
La solitudine dinamica e l’arte della lentezza. La corsa su biciclette antiche più famosa del mondo raccontata da chi ne conosce i segreti. Intervista a Guido Rubino
Fausto Coppi guardò quella fotografia perplesso. La sua lunga gamba in primo piano, i muscoli tesi che segnavano piccoli valloni sul polpaccio e quadricipite. La schiena dritta e il suo corpo slanciato verso il cielo. Capitava quasi mai che si alzasse sui pedali. Solitamente saliva verso le cime delle montagne seduto, in quel suo modo così naturale di stare in bicicletta, quasi fosse un’unica cosa con il telaio. Era un arco ciclistico Fausto Coppi che aveva tre punti di contatto con la bicicletta: manubrio, sellino, pedali. Quella volta però la perfezione del suo incedere non c’era. “Sospirò più, poi mi disse che quasi non si riconosceva in quell’immagine”, raccontò nel 1970 Ettore Milano, fido gregario dell’Airone. “Eppure a quella foto si era affezionato. Proprio perché gli sembrava che in quello scatto fosse rappresentato qualcun altro. Diceva che c’era una strana armonia in quella fotografia, che il fotografo aveva immortalato qualcosa che non ricordava di aver fatto”.
Congelare il movimento, rapirlo e condannarlo a un istante è una costrizione. Eppure c’è nulla di più antico e affascinante del rapimento della velocità, del bloccarla in un istante, obbligare una bicicletta all’immobilismo, a un surplace perenne. Renderla un fermo immagine, darle il centro del proscenio non staccandola dallo sfondo. Fotografarla è in fondo soprattutto una questione di armonia.
Le biciclette sono fatte per muoversi, per farci muovere, “eppure non risentono della fissità. Questa non le trasforma, non le sminuisce. Quando ne blocchi l’incedere mantengono la grazia. E svelano ciò che chi ci pedala sopra a volte vorrebbe tenere nascosto. Sono un mezzo di svelamento, mettono a nudo le persone. Non si può mentire quando si pedala. Prima o poi quello che hai dentro, quello che sei, esce e prende il sopravvento”, dice al Foglio il fotografo Guido Rubino.
Le biciclette gli passano attorno mentre parla. Hanno conquistato per un giorno piazza del Campo a Siena, ne hanno addobbato la conchiglia. Lui ogni tanto si ferma, osserva ciò che gli capita attorno, avvicina la macchina fotografica all’occhio. Clic. Sorride quando scatta. La sua bocca si presta a un’espressione contenta e serena quando l’obbiettivo si apre per richiudersi subito qualche frazione di secondo dopo. Davanti alla sua macchina fotografica le bici portano in giro per la Toscana i loro decenni, ma non li sentono affatto. “Mantengono la loro perfetta armonia, la stessa che si cerca di rappresentare in una foto”.
Sono le bici dell’Eroica, la ciclostorica più antica e più partecipata al mondo che ogni anno da venticinque anni (e ventiquattro edizioni, una se l’è fregata la pandemia) parte da Gaiole in Chianti per a Gaiole in Chianti ritornare. Tutte biciclette messe su strada prima del 1987. Qualcuna che ha pedalato per oltre un secolo, qualcuna che ha visto soltanto (si fa per dire) diversi decenni. Tutte in acciaio, tutte con le gabbiette sui pedali, cambio al telaio e cavi dei freni esterni, tutte cavalcate da donne e uomini in maglia in lana. Com’era un tempo, com’è stato per anni e anni.
“Le biciclette d’epoca hanno una luce propria, che nessuna bici moderna ha più. Luccicano. L’acciaio ha sempre qualche cromatura e queste cercano i tuoi occhi, si fanno notare, le vedi brillare. E hanno un loro suono distintivo. Tintinnano. Lo stoc del carbonio è un rumore sordo, un’esibizione di forza. L’acciaio no. E’ un tiin armonico, sottile e acuto”, evidenzia Guido Rubino.
C’è di più dell’immagine in una fotografia che riguarda il ciclismo. Nelle foto “entra anche il rumore, o l’assenza di esso. Il silenzio penetra nella fotografia, riesce a dire qualcosa a chi la vede”. Il pedalare d’altra parte è un atto silenzioso. Anche se parziale, non assoluto. Sta nella scia del silenzio, lo insegue, si avvicina, senza mai raggiungerlo. La bici non fa rumore, al massimo un fruscio, un tintinnio, un sommarsi di piccoli suoni metallici che diventano lieve colonna sonora del muoversi. “La fotografia questo riesce a coglierlo. Ferma il silenzio delle persone, fa scorgere gioie e preoccupazione, mette a fuoco i sentimenti. Perché muovere i pedali porta a galla i pensieri, le idee, evidenzia cosa va e cosa non va in noi”, sottolinea Guido Rubino.
Pedalare mette in moto la mente, i ragionamenti si fanno più sottili, illuminano in un modo diverso la nostra quotidianità, danno a essa un’altra forma, una forma nuova. “Le idee migliori mi vengono in bicicletta. O sotto la doccia. Ossia negli unici due momenti nei quali non devi fare null’altro che movimenti conosciuti e basilari, movimenti che hai fatto milioni di volte e che sono sempre li stessi. In quel momento la tua testa è libera, non ha da pensare a nulla”, spiega Guido Rubino. “Pedalare è qualcosa di automatico. Lo sai fare perché l’hai imparato chissà quanto prima. E la bici non fa altro che riproporti tutto questo, in una maniera sempre uguale a se stessa. Quando pedali guardi quello che ti circonda, magari scopri nuovi luoghi. E la tua mente è libera di vagare dove vuole. E facendo così le cose si chiariscono, appaiono intuizioni e idee che sino a un momento prima non c’erano. A volte sono sciocchezze, perché comunque stai faticando e quando fatichi sei mica sempre troppo lucido. Eppure il lampo può arrivare. E può arrivare perché sei da solo. La bicicletta ti insegna a gestire la solitudine, riesce a renderla gradevole”.
E’ una solitudine dinamica, quasi romantica, come quella di certi eroi che in essa trovano il compimento della propria esistenza. Una solitudine creativa, capace di rimetterti a posto con il proprio non detto, di sistemare tutte quelle bugie che ci diciamo per evitare di pensare a ciò che non vorremmo affrontare. E’ un atto di sincerità.
La sincerità nella fotografia invece non sempre serve. A non mancare devono essere spunto e conoscenza. Quella della bicicletta come mezzo. Quella del contesto, dei luoghi dove queste passano. Servono idee chiare e capacità di cogliere il momento giusto.
“Rispetto alle corse ciclistiche, L’Eroica ti permette di fotografare quello che vuoi e, soprattutto, come lo vuoi. Insomma, ti facilita un poco il lavoro. Non solo puoi rapire il movimento della bicicletta, ma puoi decidere come rapirlo”, spiega Guido Rubino.
Il motivo è anche numerico: “Di ciclisti ce ne sono tanti, tantissimi, e scorrono per il Chianti e le Crete senesi senza soluzione di continuità. E’ un lungo flusso che ti dà seconde e terze e tante altre possibilità. Scatti una foto o due, le guardi, capisci cosa va e cosa no, puoi correggerle. Ti concede la possibilità dell’attesa, della scelta di come e cosa inquadrare, di come costruire la tua foto. Mica è sempre vero che una foto è l’istantanea di un attimo. Lo è, ma sta al gusto e alla sensibilità del fotografo sgrezzarlo. All’Eroica decidi cosa fotografare e hai la possibilità di aspettare che si componga il quadro che avevi immaginato vedendo pedalare”.
Non tutto però è ricerca, studio e consapevolezza perché “a volte la strada ti si para davanti e ti ritrovi innanzi a quello che non pensavi, ma che è perfetto lo stesso e scatti perché non puoi fare a meno di farlo”.
Nelle gare dei professionisti questo è più difficile. I corridori viaggiano veloce, molto spesso in gruppo. Un vagare collettivo. Quando questo si sparpaglia lungo il percorso è perché qualcuno ne ha forzato la resistenza, ha fatto superare a molti la soglia di sopportazione della fatica. E’ una ricerca della solitudine il ciclismo, un tentativo di trasformazione: diventare un uomo solo al comando. Che siano in gruppo o da soli, i corridori sono comunque un vortice colorato, che cerca di scorrere via dai rivali e pure, perché no, dall’obbiettivo.
Robert Capa nel luglio del 1949 si trovava a Martigues a casa di amici quando incappò nel Tour de France. “Mi ritrovai assalito da una tempesta di biciclette. Rimasi imbambolato a guardarle, rapito da quel movimento collettivo incalzante e meraviglioso. Provai a fotografarlo, ma mi venne il mal di testa. Ci vuole pelo sullo stomaco per fermare su pellicola lo sport”, disse al Monde nella primavera dell’anno successivo.
“Nelle corse il colpo d’occhio, la capacità di cogliere ciò che può accadere, insomma l’istinto consapevole, assume un ruolo essenziale. I bravi fotografi sono persone che hanno una conoscenza perfetta di come si svolge una gara ciclistica, delle dinamiche del gruppo. E capiscono subito, alla prima occhiata, quale può essere il punto migliore per fotografare i corridori. Ricordo una foto meravigliosa che rappresenta tutto questo. Era la Parigi-Roubaix del 2016 e in un tratto di pavé Fabian Cancellara cadde e Peter Sagan lo saltò tirando su di forza la bicicletta. Quell’attimo è stato immortalato da un fotografo che si trovava lì ed è riuscito a rapire quell’attimo. Quel fotografo non era lì per caso. Aveva visto che il punto era pericoloso perché c’era una pozzanghera, che qualcosa poteva accadere. Molte volte nulla accade, magari escono foto bellissime lo stesso, ma di quelle che quando le guardi dici: ‘Belle’. Quella volta invece, per sua fortuna, un po’ meno per Cancellara, quel ‘bella’ si trasformò in un ‘wow’. Fu un caso. Ma un caso reso possibile dalla sua conoscenza e dalla sua capacità di farsi trovare puntuale all’appuntamento”.
L’Eroica è anche un salto indietro e da lì uno in avanti nel tempo. L’ingresso in una dimensione deformata della continuità temporale. “Il bello di ritrovarsi a fotografare le biciclette tra gli sterrati del Chianti e delle Crete senesi è che fotografi a colori quelle foto che abbiamo visto chissà quante volte in bianco e nero. Ridai vita ai ricordi, li ringiovanisci”. I colori che Coppi e Bartali, Brunero e Bottecchia, Girardengo e Binda non hanno mai avuto concesso in dono. “Nelle foto all’Eroica ritornano quei corridori che vedevi soffrire coperti di polvere e fango, in quel bianco e nero che a volte dà l’impressione di tristezza e sfortuna agli occhi di oggi. E invece erano corridori fighi i corridori di allora. Avevano volti espressivi, forse non sempre fotogenici, ma senz’altro affascinanti. Avevano uno charme particolare, qualcosa che si è smarrito con il passare degli anni”, riflette il fotografo.
Guido Rubino osserva piazza del Campo. I suoi occhi vagano qua e là, osservano il brulicare di corpi e biciclette che animano la grande conchiglia. Ogni tanto indica qualcosa, inforca la macchina fotografica, scatta una foto.
L’Eroica è anche un tripudio di corpi come non se ne trovano nel mondo del ciclismo. Forse come non ce ne sono mai stati. “Non seguo il ciclismo, non potrei mai appassionarmi a esso. Eppure ho cuore per la bici e polmoni ed entusiasmo”, scriveva il poeta Olindo Guerrini all’amico Corrado Ricci. Non era vero, ogni volta che poteva Guerrini passava per la Montagnola a Bologna a vedere le corse su pista. Era altro però a cui si riferiva. “E’ un tripudio di secchezza il ciclismo. La velocità è un imperativo assoluto, le forme sono spigolose, nulla in loro richiama al piacere della floridezza”. Si rammaricava di questo il poeta.
Tra Chianti e Crete senesi si ricrederebbe. Perché esiste anche altro rispetto alla secchezza. C’è una floridezza a pedali che non insegue la velocità. “Il tondeggiare del corpo non sfigura su di una bicicletta. Anzi. E’ particolarmente fotogenico. Ma la pancia la bisogna saper portare con orgoglio, senza vergogna”. C’è un rischio però nel fotografare queste forme. “Il ciclista sovrappeso quasi sempre è un ciclista fiero, uno che non ha problemi a mostrarsi, che anzi molto spesso ne fa un vanto. C’è un bel più da faticare a portarsi per strada i chili di troppo. Per questo chi fotografa deve evitare di banalizzare tutto ciò. Non c’è nulla di ridicolo in una bella pancia a cavalcioni su di una bicicletta, anzi è uno dei più grandi gesti d’amore che si può fare per questo mezzo”.
Guido Rubino il suo amore per la bicicletta lo dimostra inquadrandole, rubandole il movimento, lasciandole in un eterno surplace. “Che cosa meravigliosa la bicicletta”.