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Il Foglio sportivo

Certo, mio figlio poteva restare un altro po'. Parla Paolo Simoncelli

 Alessandro Ferri

Il papà del pilota scomparso a Sepang racconta il lavoro dell'associazione benefica in memoria di SuperSic, a dieci anni dal tragico incidente

Tornare con la memoria al 23 ottobre del 2011 è un esercizio doloroso che ferisce ogni persona che ami lo sport in maniera viscerale. Perché in una giornata così densa di eventi, con gli All Blacks che battono la Francia 7-6 e diventano campioni del mondo di rugby per la seconda volta nella loro storia, il Milan che sotto 3-0 a fine primo tempo al Via del Mare contro il Lecce rimonta e vince 3-4, Mario Balotelli, che dopo aver segnato il primo dei sei gol con cui il Manchester City travolge lo United all’Old Trafford, alza la maglia e mostra al mondo la scritta Why always me?, tutto viene oscurato dalla tragedia del circuito di Sepang, dalla morte di un ragazzo di 24 anni con la moto numero 58 che si chiamava Marco Simoncelli, ma che per tutti era Sic, o semplicemente Marco. 

“Quando è successo questo fatto – dice suo papà Paolo – tutti si sono immediatamente accorti di cosa gli sarebbe mancato. Secondo me Marco era un ragazzo normale e questa normalità aveva conquistato i tifosi e gli appassionati. Cerchiamo di portare avanti ciò che io e Carlo Pernat (dirigente e procuratore di molti piloti in MotoGP) abbiamo deciso di fare il giorno del funerale: mettere in piedi una fondazione in suo nome”. L’ente ha iniziato a raccogliere un’infinità di donazioni in pochissimo tempo: “Ci siamo messi all’opera in fretta – prosegue – anche per dimostrare a chi donava che volevamo attivarci facendo del bene. Per il primo progetto abbiamo collaborato con la Fondazione Rava, contribuendo alla costruzione di un piccolo ospedale ad Haiti, che era stata rasa al suolo dal terremoto. Dopodiché abbiamo finanziato opere in Africa, ma ci siamo resi conto che era giusto dedicarci al nostro territorio, anche per far vedere alla gente che facevamo qualcosa di concreto con i soldi delle loro donazioni. Per questo ho pensato di costruire un centro per ragazzi disabili a Coriano (il paese in provincia di Rimini in cui Marco è cresciuto) e di donarlo alla Cooperativa di Montetauro, che assiste queste persone. Quando passo lì davanti mi sento davvero orgoglioso di ciò che abbiamo fatto”.

Paolo ha però fatto qualcosa di ancor più coraggioso. Non fuggire dal mondo delle corse, da quel circus che gli aveva tolto tutto, ma anzi investire in questo, mettendo su una squadra (il team Sic58, che gareggia in Moto3 e in MotoE). Sulla scelta Paolo è molto sicuro: “Il team è servito a me per mantenermi vivo. La nostra forza è sempre stata quella di non avere rimpianti, perché Marco quando correva era felice. A livello tecnico siamo stati proprio bravi. Abbiamo avuto piloti come Arbolino, che se fosse rimasto ci avrebbe fatto vincere un Mondiale, e Suzuki, a cui abbiamo dato tanto e che il prossimo anno andrà via. Stiamo crescendo bene”.

Nei momenti più duri, la famiglia Simoncelli ha fatto quadrato e ha cercato di ritrovare la pace. “Abbiamo avuto la fortuna di rimanere uniti: abbiamo un’altra figlia, Martina; la morosa di Marco, Kate, è rimasta a vivere con noi creando una sorta di famiglia allargata e questo ci ha confortato nei giorni più dolorosi. Un genitore non dovrebbe mai perdere suo figlio, è una cosa che non dovrebbe esistere. Per affrontare queste cose ci vuole una forza esagerata. Oggi ne parlo tranquillamente e anzi, cerco di ricordare mio figlio ogni volta in cui posso, ridendo spesso del suo carattere e delle sue stranezze”.

Il ricordo della simpatia e delle grandi capacità del 58, che fu anche campione del mondo classe 250 nel 2008, è ancora vivo e questo lo racconta anche suo padre: “Accadono cose strane: chiunque incontro mi dice che si ricorda dove era e cosa stava facendo la mattina del 23 ottobre. In tutto questo, continuano ad aumentare i visitatori del museo dedicato a Marco (che si trova sempre a Coriano). Dopo 10 anni vendiamo più merchandising rispetto a tanti piloti che corrono oggi. Si vede che mio figlio era un predestinato. Certo, ha rotto i coglioni: poteva restare con noi un altro po’”.

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