Inter-Juventus, la più autunnale delle partite
Tra nerazzurri e bianconeri finisce 1-1 tra rimpianti e recriminazioni dopo una partita brutta e senza ritmo. Napoli e Milan allungano ancora
Non è facile trovare partite più autunnali di Inter-Juventus di ieri sera. Mentre Milano offriva alla sua gente un ultimo weekend pseudo-estivo, prima che tra una settimana l'ora legale ci travolga e ci faccia sprofondare nelle tenebre fino a marzo, le squadre in campo davano vita a un balletto di rimpianti, recriminazioni e bronci assortiti, con la malinconia del bambino che si incupisce al pensiero del lunedì mattina a scuola. Vuoi per la classifica che si allunga, vuoi per il pareggio-che-non-serve-a-niente, alla fine era tutto un mugugno, anche se sotto sotto un mezzo ghigno di sollievo si dipingeva sulla faccia della Juve che scroccava un altro risultato utile, puro distillato di allegrismo.
È stata una Juve che a lungo “ha morso il cuore con monotono languore”, come scriveva Verlaine in una poesia che si intitolava Violini d'autunno. Titolo che bene si confà alla panchina bianconera di ieri sera in cui giaceva un'esposizione di occasioni mancate, da De Ligt ancora troppo inesperto per comporre una nuova difesa a tre (la BCD?) a Dybala e Chiesa. Nell'autunno della propria esistenza professionale, un autunno che tuttavia può essere ancora carico di gloria e splendente come certi certi paesaggi di Gauguin, Max Allegri è sempre più attratto dall'idea che a cambiare le partite basti uno dei suoi famosi numeri di prestigio da mettere in scena a mezz'ora dalla fine, nel ripetuto stupore generale. Kulusevski cavato dal cilindro a San Pietroburgo, De Sciglio riesumato contro Roma e Zenit, Kean titolare contro la Roma, Bernardeschi falso centravanti contro il Chelsea sono in fondo picchi di perdonabile vanità, perdonabile soprattutto perché hanno coinciso con altrettante vittorie. Pensando al prossimo prestigio, ieri sera non si è preoccupato abbastanza del primo tempo, offrendo nella prima ora di gioco una Juventus dal foliage incerto, inadeguata in molti suoi interpreti, dal pittoresco McKennie all'avvizzito Alex Sandro, mantenendo la barra dritta anche davanti all'infortunio di Bernardeschi, che secondo molti avrebbe dovuto essere il segnale di via libera per Chiesa: invece dentro Bentancur, a ribadire il concetto.
Il piano gara è riuscito con mefistofelica precisione, tanto da lasciare la sensazione che con altri dieci minuti da giocare l'ineffabile Max avrebbe sgraffignato l'intera posta: ma invece di sospirare di sollievo la Juve dovrebbe farsi due conti, perché dopo nove giornate è già a -10 dalle due capolista quando l'anno scorso il distacco aveva toccato le due cifre solo il primo giorno di primavera, in corrispondenza dello sciagurato harakiri interno contro il Benevento, anche perché l'Inter aveva iniziato a galoppare seriamente solo a dicembre. Nel frattempo, di cortomuso in cortomuso, si cerca di stressare il concetto che con Cristiano Ronaldo era peggio – lo dice anche Chiellini! – anche se è lampante che alla Juve manchino i gol facili: peggior attacco delle prime undici in classifica insieme alla Fiorentina. Nessuna strana sindrome, ovvio, capitò anche al Real Madrid, che nel primo autunno post-CR7 languiva addirittura a centro classifica. Ma l'assenza di un punto di riferimento offensivo all'altezza della Juventus – l'unica prima punta in campo ieri, Morata, ha galleggiato tra l'impalpabile e il dannoso – è un difetto di fabbricazione troppo esteso per poterlo ignorare tutta la stagione.
I demeriti e le piccole mancanze bianconere fanno scopa con quelle dell'Inter e chiamano in causa il persistente complesso d'inferiorità di chi si accinge a fare un grosso e meritato risultato contro la big delle big, ovvero la Juventus, ma non può fare a meno di lasciarsi attrarre dalla puzza di bruciato che proviene dalla cucina. Due settimane fa nel derby, per proteggere lo 0-0, Juric aveva rimpinzato il Torino di mediani (certo, non aveva grosse alternative in panchina), e mal glie n'era incolto. Ieri Inzaghi ha tolto uno dei migliori in campo, Perisic, per sostituirlo con Dumfries, un esterno che in due mesi non ha mai brillato per attitudine difensiva. Su questi episodi la Juventus ha ormai una serie favorevole da Guinness dei Primati specialmente nella sua versione più orgogliosamente tardo-allegriana, anzi si direbbe vada proprio a ricercarli con le bacchette da rabdomante, scovandoli come monetine sotto la sabbia. Parafrasando il celeberrimo monologo di Tony D'Amato-Al Pacino in Ogni maledetta domenica, tanto caro ad Adriano Galliani: gli episodi sono dappertutto. Visto da questa prospettiva, il calcio è davvero semplisce (cit.): in questi tempi di vacche magre per andare a dama è più che sufficiente una Juventus conservativa, che minimizza l'errore e anche quando trascorre 70 minuti in svantaggio non offre mai praterie come quelle del gennaio 2021, Conte-Pirlo 2-0, quando il tracciante di 50 metri di Bastoni per Barella che prese in mezzo il povero Frabotta fece inorridire interi decenni di juventinità.
Mentre la Serie A si avvicina al suo 25% e già in controluce si intravedono le prime crisette di sistema, specialmente dalle parti di Roma, non è affatto poco. La Juve si sta lentamente allineando alla convinzione di Allegri che questo sia comunque il migliore dei mondi possibili, e se anche la prestazione è scadente per un'ora abbondante, poi arriva sempre la palla buona per la redenzione: oggi a Dybala, ieri Kulusevski, l'altro ieri Kean, dopodomani Locatelli, e poi chissà... È compito delle squadre più forti – per esempio l'Inter, che l'anno scorso le ha inflitto tredici punti di distacco – impedire che questo accada, magari forzando la mano e andando più convintamente a caccia del gol che chiuda la partita. Ieri non è successo, secondo un copione talmente juventino da sembrare una caricatura: con un caso da moviola che potrebbe trascinarsi per generazioni, stimolando i cavilli e le eccezioni, i complotti e i sensi di colpa, esasperando i più bassi e ancestrali istinti tipici di ogni Inter-Juventus.
Per esempio, chi sa dire a norma di regolamento quale accidenti sia il limite oltre cui scatta un “chiaro ed evidente errore”? C'è un indice di chiarezza tipo scala Mercalli? Il VAR Guida doveva tacere pur avendo ragione? E perché Dumfries su Alex Sandro sì e Viña su Anguissa tre ore prima in Roma-Napoli no? Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie: più incerti e precari che mai, gli arbitri come i presidenti, i terzini come gli allenatori: i quattro cartellini rossi sventolati lo stesso giorno a Gasperini, Inzaghi, Mourinho e Spalletti affondano il dito nella piaga.
I due big match della domenica sera sono state partite tese e incerte ma brutte, soprattutto senza ritmo, piene di falli e di interruzioni, che danno ragione a chi vorrebbe direzioni più europee. Aspettative contro realtà, velleità contro necessità. Tutti inseguono confusamente la botte piena e la moglie ubriaca, l'obbligo di tenere il piede in due scarpe tra campionato e Coppe e l'esigenza del bel gioco, con una sola considerevole eccezione: questa Juventus d'autunno cui non frega niente dell'immagine e, come la nebbia del Carducci, piovigginando sale.