Il Foglio Sportivo
La stracittadina è tornata a camminare
Milan e Inter sono ripartite come la città. Tra Ibra e Dzeko si decide lo scudetto come cantava Celentano
È il Derby. Sì, il derby di Roma accende e divide la città come se fosse la finale di Champions League. Sì, nel derby di Torino c’è una rivalità politico-geografica, la squadra del popolo e della città contro la squadra del padrone, troppo grande e troppo seguita per essere legata a un solo luogo. Sì, nel derby di Genova le gradinate vengono giù come lava ribollente e lo stadio ti sta addosso come non succede altrove. Tutto vero, ma quando si parla di derby, solo per quello di Milano la “d” diventa maiuscola. Il Derby è questo, quello di Milano, di San Siro, la "Scala del calcio", che tra le definizioni abusate da cui siamo circondati è la meno banale. Nello stadione che, forse, ha gli anni contati, domani sera si incroceranno Milan e Inter per un’altra sfida scudetto. Entreranno nel teatro intitolato a Giuseppe Meazza che tornerà ad avere un pubblico dopo venti mesi. Quando cominciai la mia avventura nel giornalismo, mi portarono nell’ufficio di Pilade Del Buono, al Giornale diretto da Montanelli. Pilade aveva strappato Gianni Brera al Giorno e l’aveva portato da Indro. Il suo primo articolo, in quella che allora era la Terza Pagina, campeggiava appeso dietro la sua scrivania. Era il necrologio di Meazza. Il titolo mi è rimasto impresso: “Peppin Meazza era il folber”. Parentesi: era rimasto impresso anche a Montanelli che odiava le espressioni dialettali e fece un bel respiro per accettarlo. Peppin Meazza era il folber, e il Derby la più alta espressione.
Per me, ragazzo di provincia, il derby è sempre stato questo, il Derby Milan-Inter (secondo calendario), un mare di cappelli e cappotti in bianco e nero, che formavano una sola, unica, lunga onda di tessuto e sentimenti, di umanità diversa che nel grande stadio consacrato al rito del calcio, diventava tutt’uno, lasciava fuori le differenze di classe e si fondeva in un’unica fede. Quella per il football. Una grande fede divisa in due dal tifo, ovviamente. San Siro-Meazza era un luogo magico dove nascevano storie. Solo il Derby con maiuscola ha una canzone straordinaria a raccontarlo: “Oh, bella mora / Se non sbaglio lei ha visto l’Inter-Milan con me / Ma come fa lei a non ricordar / Noi eravamo in centomila / Allo stadio quel dì / Io dell’I-Inter / Lei del Mi-Milan / Oh, bella mora” canta Adriano Celentano sui vecchi gradoni di cemento dello stadio prima dei vari “ritocchi”, soprattutto quello del 1990. Il Derby di Milano è storia e cronaca, cultura e spettacolo. In questi giorni, come accade sempre, avrete letto le sue vicende e i suoi aneddoti, un percorso lungo 112 anni dalla prima volta, il 10 gennaio 1909, sul campo di porta Monforte, Milan-Inter 3-2.
La narrazione del Derby incrocia quella della città e della Nazione. A San Siro-Meazza il calcio italiano ha raggiunto le sue vette. Questi muri, questo prato hanno visto più trofei di tutti gli altri, e ci sono le targhe, quando entri e alzi la testa, a ricordarli: 37 scudetti (18 Milan, 19 Inter), 10 Coppe dei Campioni, vecchie e nuove (7 Milan, 3 Inter). Basta questo, senza contare tutti gli altri trofei che, pure, sono numerosi. Non c'è un luogo come questo, in Italia, non c'è un Derby come questo. Certo, negli ultimi anni è stata una sfida al ribasso, negli anni della Juventus dominante Milan e Inter non erano degni avversari, perché a Madama i pericoli (quasi sempre presunti) li portavano altri, il Napoli soprattutto, la Roma talvolta, nell’anno del Covid la Lazio fermata sul più bello dal virus e mai più tornata.
Ora, da un anno, il Derby è tornato quello dei cappotti e di Celentano, un evento, perché Milan e Inter sono tornate lassù, in alta classifica. Ora siamo al Derby numero 229 (in serie A il numero 175) ma sommando le gare non ufficiali (qualcuno l’ha fatto, complimenti, ma si trovi uno bravo per l'analisi) sarebbero 300 cifra tonda. Siccome la matematica non è mai stata il mio mestiere lo riporto così, senza assumermi alcuna responsabilità. Questa se l’assumeranno “bauscia” e “casciavit”, secondo l’antica divisione che è bella ma non esiste più nei fatti, perché le carte sociali si sono mischiate e gli interisti non sono più i borghesi coi danè, un po’ ganassa (arroganti/strafottenti) e i milanisti non sono più il popolo operaio, che usa i cacciaviti, appunto. Se l’assumeranno bauscia e casciavit in maglietta e calzoncini, Pioli & Inzaghi, Ibrahimovic & Dzeko. Grazie a loro e a tutti gli altri, il Derby è tornato importante e ora cammina di nuovo insieme con la città.
Sì, perché se anche negli anni calcisticamente bui, aveva mantenuto intatto il suo fascino, per lo scudetto era meno rilevante. Il Derby di Milano ha vissuto una sorta di staffetta con la città. Con l’Expo del 2015 Milano ha avuto un’accelerazione, diventando una metropoli che poco aveva a che spartire con il resto d’Italia: “Milano vicino all'Europa”, cantava Lucio Dalla in tempi non sospetti, mentre Milan e Inter “che fatica”. Poi è arrivato il virus e Milano ha rallentato, la città ha frenato, i grandi alberghi sono rimasti vuoti, il centro, un po’ per lo smart working e molto per l’assenza di turismo è diventato un deserto. Invece, proprio durante la pandemia Milan e Inter hanno ripreso il posto che devono occupare in classifica, per l’eredità, per la discendenza. Ora, la città, uscita dalla pandemia (speriamo), ha ripreso il suo cammino: il Derby e Milano procedono nuovamente affiancati, non hanno più due velocità ma lo stesso ritmo, la stessa emozione. Ci vediamo sugli spalti, oh bella mora.