Il fascino discreto di Simone Inzaghi
L'Inter gioca bene gli scontri diretti per sessanta minuti, poi cede di schianto. C'è un odore d'incompiutezza che inizia ad attaccarsi ai vestiti di un allenatore che da tempo è atteso al grande salto, sempre rimandato per motivi imprecisati
E due. Anzi forse tre, persino quattro. L'Inter gioca bene gli scontri diretti per sessanta minuti, facciamo anche settanta, domina anche ampie regioni della partita, poi cede di schianto: contro la Juventus, contro la Lazio, contro il Milan. La folle Inter-Atalanta fa storia a sé, ma pure lì l'ultimo cazzotto era spettato agli altri, con il VAR che aveva cancellato l'errore di Handanovic sul tiro di Piccoli. C'è un odore d'incompiutezza che, dai e dai, inizia ad attaccarsi ai vestiti di Simone Inzaghi, un allenatore che da tempo è atteso al grande salto, sempre rimandato per motivi imprecisati. Il Fascino Discreto della Borghesia, massimo capolavoro di Luis Buñuel, giocava sul grottesco paradosso di una cena di un gruppo di persone apparentemente perbene che non riusciva mai a concludersi ogni volta per un accidente diverso: il latente senso di precarietà si faceva lungo il film sempre più opprimente, finché tutti i personaggi si ritrovavano – letteralmente – in mezzo a una strada. (Uno dei personaggi principali si chiama proprio Simone, ma essendo un film francese si tratta della protagonista femminile.)
Così all'Inter di Inzaghi, dalla tavola certo meno imbandita rispetto a quella di Conte ma non così tanto miserevole (lo dimostra per esempio l'ottima risposta di testa e di gambe in Champions League nel doppio confronto con lo Sheriff), manca sempre qualcosa: una volta è il rigore sbagliato, un'altra la palla non restituita, un'altra ancora il foto-rigore deciso dal VAR, questa volta le occasioni sprecate, qualche infortunio al momento sbagliato... La prossemica dell'allenatore, che sembra parlare al mondo intero sempre tendendo le mani avanti a protezione di sé stesso, ostacola l'autoanalisi dei propri limiti. Anche nel commento post-partita a DAZN Inzaghi è sembrato attribuire la causa del pareggio solo all'errore dal dischetto di Lautaro Martinez, come se da quel rigore dipendesse un eventuale azzeramento della settantina di minuti successivi. È un piccolo e regolare scaricabarile che definisce lo standing non eccezionale di Inzaghi, confermato dal puntuale ripetersi delle stesse situazioni dopo quasi tre mesi di gestione, sempre con quel lessico un po' stiracchiato da allenatore piccolo-borghese di metà classifica che non ha nulla a che vedere con l'antipatica grandeur del suo predecessore, del quale era indiscutibile la malvagia grandezza.
Intanto un terzo di campionato è già volato via, i punti sperperati da situazioni di vantaggio sono già undici – anche contro squadre non irresistibili, vedi la Sampdoria – e continuando così c'è rischio che i rimpianti superino presto i ricordi. Partiamo allora dai tratti comuni, indiscutibili di questi micro-passi falsi: l'ultimo quarto d'ora col freno a mano dell'Inter, privata per infortunio di Dzeko, Barella e Bastoni, fa scopa con quello finale contro la Juventus, dove i nerazzurri si rintanarono nella propria metà campo per pura paura mentale di un avversario che non era mai riuscito a portare mezzo pericolo ad Handanovic. Se il tilt nervoso con la Lazio può essere derubricato a episodio imponderabile, anche la sconfitta in Champions contro il Real Madrid è arrivata secondo le stesse modalità. Il passaggio da Conte a Inzaghi ha scalfito il cemento armato in cui erano forgiati tutti e diciotto i principali giocatori dell'Inter 2020-2021? Perché Conte era riuscito a furia di panchine e cazziatoni e umiliazioni ad ammaestrare e teleguidare col pensiero persino un piedidolci come Eriksen, mentre l'Inter di Inzaghi, più consapevole e guarnita di uno scudetto in più, è fin qui sempre il solito bello e brillantissimo romanzo cui sono state strappate di netto le ultime venti pagine?
Si dirà che proprio i nuovi acquisti sembrano ancora quelli meno sintonizzati sulle lunghezze d'onda che deve per forza tenere una squadra campione in carica: e quindi l'altalenanza di Correa, la carta d'identità di Dzeko, le sbadataggini di Dumfries, il lungo letargo di Calhanoglu che sorprendentemente da settembre ha giocato bene solo i due scontri diretti contro Juve e Milan. Nell'Inter di oggi manca in generale un giocatore dal rendimento costante, né Dzeko né Lautaro né Perisic, né Brozovic che non ha sostituti in mezzo al campo, nemmeno i tre difensori che – per comprensibile svolta tattica del post-Lukaku – imbarcano molta più acqua, e nemmeno Barella che rimane un intoccabile ma non ha giocato un buon derby. È questa la normalità che il miracolo di Conte aveva mascherato per un anno intero, o è lecito aspettarsi di più da una buona decina di titolari di grandi nazionali, tutti più o meno incapaci di elevarsi sopra il 6,5 in pagella?
Strada facendo, l'Inter 2020-21 aveva intrapreso un ruolino di marcia da cecchino prussiano: aveva vinto 24 delle 26 partite in cui aveva segnato l'1-0, perdendo per strada solo quattro punti in autunno contro Lazio e Atalanta e non sbagliando più un colpo da dicembre in avanti. È il segno che il margine per rientrare e migliorare c'è, ed è possibile recuperare punti sulle due battistrada che stanno tenendo un ritmo da 90-95 punti molto difficile da sostenere fino in fondo. Ma ci chiediamo se Inzaghi ce l'abbia, questa capacità di cambiare passo a metà gara e salutare la compagnia. Esistono ottimi ciclisti che hanno passato tutta la carriera ad aspettare il momento in cui avrebbero vinto la prima corsa a tappe, come il grande Raymond Poulidor otto volte sul podio del Tour de France, sempre piazzato e mai vincente, senza mai indossare la maglia gialla nemmeno un giorno. In oltre novant'anni di storia della serie A, ben 102 allenatori diversi sono stati soli in testa alla classifica almeno per una giornata, da Carletto Mazzone a Rino Marchesi, da Gigi Delneri a Stefano Pioli: non prendeteci per livide cornacchie se vi facciamo notare che, per il momento, di quest'elenco non fa parte Simone Inzaghi.