Il Foglio sportivo
Giampiero Galeazzi, l'anti-trombone
Bisteccone era serio senza prendersi sul serio. È stato un grande giornalista perché era un professionista, ma soprattutto perché aveva una grande autoironia
L’ultimo messaggio: “Il tempo è sempre galantuomo... grazie per i ricordi e le mangiate... gp”. Grazie a te, Giampiero. Che cosa rende un essere umano speciale? I ricordi che abbiamo di lui, resistenti all’oblio. Tra quelli comuni, le sue telecronache sul remo azzurro, dall’epopea degli Abbagnale (“Andiamo ragazzi, la prua è italiana”, Seul ‘88) ad Antonio Rossi (“Vai Antonio, sei il più forte del mondo, andiamo a vincere”, Sydney 2000). Oppure il suo amore per il tennis, da Panatta a Canè, sempre addosso al protagonista di turno. Giampiero è stato canottiere, andò all'Olimpiade del Messico, nel 1968. Mentre gli eroi remavano verso il successo, la sua voce si arrochiva sempre di più, ma conservando competenza ed entusiasmo.
Giampiero Galeazzi, romano, giornalista, showman in alcune parti della sua vita (da Sanremo con Pippo Baudo a Domenica in con Mara Venier) se n’è andato a 75 anni. Malato da tempo, era nato a Roma il 18 maggio del 1946 Gian Piero Daniele Galeazzi. Di origine piemontese, laureato in economia con una tesi in statistica, grande e grosso, ottenne il suo famoso soprannome da un altro giornalista storico della Rai, Gilberto Evangelisti, che quando lo vide per la prima volta, sentenziò: “Ma chi è sto bisteccone?”. E Bisteccone, con la b maiuscola, fu. Giampiero è stato un grande cronista, trasversale. Una volta, in Islanda per una partita di calcio, travolse gli ingessati giornalisti al seguito, scaraventandosi verso Reagan e Gorbaciov, appena usciti da un summit. Esattamente come faceva con Platini o Falcao. Perché Giampiero era un uomo nella mischia. Avete presente i bordocampisti/intervistatori di oggi, “tutti eleganti tranne me” avrebbe cantato Antonello Venditti, che, all’inizio dell’intervista con il giocatore/allenatore/dirigente di turno, esordiscono con “ti chiedo”? Ebbene, Giampiero avrebbe commentato: “Ao’ e se stai là, stai pe’ chiede’, che specifichi a fa’?”. Non è una critica, solo nostalgia canaglia.
Giampiero ci offre lo spunto per ricordare un modo di narrare lo sport e un giornalismo che non esistono più. Certo, il mondo evolve, però io penso all’Hapax di Eugenio Montale: “È scomparso l’hapax / l’unico esemplare di qualcosa / che si suppone esistesse al mondo / (...) Fosse stato un uccello, un cane o almeno un uomo / allo stato selvatico. Ma si sa / solo che non c'è più o non può rifarsi”. Giampiero Galeazzi era il campione di un giornalismo serio senza essere serioso. A differenza di tanti altri giornalisti che si nascondono dietro il “non tifo”, non ha mai nascosto di essere della Lazio. Sapeva che l’amore per una squadra non avrebbe mai zavorrato la sua professionalità. Era il campione di un giornalismo sempre sulla notizia, ma gaudente. Una volta un telecronista dei più famosi oggigiorno spiegò che lui, nel giorno delle partite non mangia nulla per non appesantirsi. Nel 2005 eravamo a Torre del Greco per Italia-Spagna di Coppa Davis. Un cameriere con un enorme vassoio dove ci saranno stati, almeno, una decina di piatti impilati uno sull’altro, passa per la sala stampa. Facciamo finta di avventarci. “Grazie del pensiero”. Lui arretra. “Non è per voi, è il pranzo del dottore Galeazzi”. Altro che giornata di digiuno pre match.
Giampiero era il campione di un giornalismo senza transenne, in cui i giornalisti arrivavano ovunque, pronti a farsi parte dell’evento. Avete presente gli intervistatori/le intervistatrici di oggi, tutti con il logo e il microfono griffato, mai un ricciolo fuori posto? Noi abbiamo visto cose che voi umani neanche immaginate. Abbiamo visto Giampiero nell’antro polifemesco del San Paolo irrorato di acqua e spumante, la camicia a brandelli, ballare con Maradona intervistandolo dopo lo storico scudetto del 1987. Abbiamo visto Giampiero Galeazzi, nell’antistadio del Comunale di Torino, inzaccherato di neve e fango, farsi largo tra i membri della corte di Gianni Agnelli e piantargli il microfono in bocca, costringendolo a un commento sulla Juventus.
Giampiero Galeazzi è stato un grande giornalista perché era un professionista, ma soprattutto perché aveva una grande autoironia. Era serio, ma non si prendeva sul serio. Un anti-trombone pieno di idee, come quella di un libro sui ristoranti accanto ai grandi impianti sportivi che mi propose ma che non riuscimmo mai a portare a termine.
Per mia massima colpa. Chi sa ridere di sé, conosce il suo valore. Non so se sia vera, ma me la raccontò proprio Giampiero, una delle battute più famose che giravano su di lui. Galeazzi torna in Rai dopo un periodo di ferie. “Giampiè dove sei stato?”. “Al centro benessere, da Messegué”. “E che te lo sei magnato?”. Più che scrivere un libro sui ristoranti, avrebbe dovuto scrivere un libro di ricordi. A me e al mio amico Dario Torromeo raccontò una serie di aneddoti fulminanti, facendo le ore piccole nel bar di un hotel di Neuchatel nel cantone svizzero francese, dove ci trovavamo per la coppa Davis. Uno ve lo sintetizzo. A furia di intervistarlo, una domenica sera l’Avvocato lo invita a cena nella sua villa. Con lui un po’ di membri assortiti del seguito. L’Avvocato pilucca e loro pure. Galeazzi, allora, prende metà vassoio di tutto. “Cavo Galeazzi, l’appetito non le manca" commenta Gianni Agnelli che poi si ritira per andare a dormire. “E com’è uscito, se so’ avventati sui vassoi, ‘sti zozzoni’”. Ci sarebbe anche quella della “valigetta de furore”, guest star Carlo De Benedetti. E tante altre. Ma la lascio per quelli di lassù, Giampiero, così farai ridere anche loro. Buon viaggio, vecchio mio.