Zlatan Ibrahimovic meritava un film migliore
La biografia del 2011 aveva in sé il respiro del biopic di successo ma, al momento della sua trasposizione sul grande schermo, l’effetto è quello di un’amichevole senza pathos
Diciamolo subito. Zlatan (titolo originale svedese Jag Är Zlatan, “Io sono Zlatan”), nelle sale italiane cinematografiche dall’11 novembre scorso, non è un capolavoro. Il regista Jens Sjögren, lo sceneggiatore Jakob Beckmann e la produzione tutta (svedese, danese e olandese) devono essersi sentiti come Abate, Flamini e Antonini nel Milan dell’ultimo scudetto, il 2010-11, alle prese con un “soggetto” vincente, ma ingombrante e incombente come Zlatan Ibrahimović.
Ibra a parte – e già ce ne sarebbe stato abbastanza per far tremare le vene ai polsi – , il “soggetto”, in senso tecnico cinematografico, era anche il bel libro che, nel 2011, Zlatan aveva scritto insieme a David Lagencrantz, un vero scrittore, a cui, pochi anni dopo (2015), era stata affidata la continuazione dei romanzi di successo mondiale della trilogia “noir-poliziesca” di Stieg Larsson. Un compito che ha assolto egregiamente arrivando nel 2019 a pubblicare La ragazza che doveva morire, sesto romanzo della serie Millennium. Già la biografia del 2011 aveva in nuce il passo e respiro del biopic di successo ma, al momento della sua trasposizione sul grande schermo, l’effetto è quello di un’amichevole senza pathos.
Come il testo ispiratore, la trama del film si concentra su due momenti narrativi della vita di Ibra: i primi anni Novanta, con uno Zlatan ragazzino, alle prese con una vita difficile in famiglia – figlio di genitori divorziati e con molte tensioni nelle relazioni interpersonali – e nel contesto sociale in cui cresce, ovvero il quartiere multietnico di Rosengård, alla periferia di Malmoe. Entrambi gli sfondi, nel film, sono restituiti con i soliti luoghi comuni: gli scazzi famigliari, le debolezze degli adulti, l’incomprensione dei figli, le reazioni scomposte e arroganti per dare sfogo alle frustrazioni private. Anche l’interpretazione del piccolo Zlatan, di Dominic Bajraktari Andersson, rientra nelle convenzioni televisive, come pure quella dello Zlatan cresciuto (Granit Rushiti), che affronta a muso duro, e con un bullismo prét-à-porter, le prime sfide della vita. Rimangono solo accennate le complicazioni di un’integrazione faticosa per un figlio di emigrati bosniaci negli anni in cui nel paese di origine dei genitori si sta consumando l’ultima tragedia bellica del Vecchio continente. Come pure assai semplificato è il rapporto causa-effetto tra ferite sentimentali famigliari e disagio sociale.
Il secondo segmento narrativo biografico – anche se i piani temporali a volte vengono inframmezzati – si concentra sullo Zlatan ventenne, alle soglie del professionismo, prima coi biancazzurri del Malmoe, e quindi all’approdo all’Ajax di Amsterdam e al “calcio-che-conta”. Il filo conduttore è sempre il tratto di ribellismo, tanto superficiale da sembrare gratuito, che lo porta a sfogarsi contro l’allenatore – quello dei Lancieri è Ronald Koeman – e contro i compagni di squadra, quando era ancora lontano dal diventare il leader carismatico che da un decennio siamo abituati a conoscere. Perché, in verità, di Ibra ce ne sono stati tanti nel corso di una carriera che ha superato il ventennio e che ancora non appare conclusa. E lo Zlatan dai trent’anni in poi, più o meno dal suo ritorno in Italia, al Milan, dopo la breve e incompresa parentesi nel Barcellona di Guardiola, è davvero un altro “soggetto”, e l’argomento è bene affrontato dall’ultima biografia dedicata a Zlatan, ovvero Zlatan Ibrahimović. Una cosa irripetibile, di Daniele Manusia, per 66thand2nd.
Il film di Sjögren si ferma al momento del passaggio di Ibra alla Juventus di Moggi, tratteggiato rapidamente, e ingenuamente, come un boss di Cosa Nostra – e del resto anche un Mino Raiola di vent’anni fa assomiglia fisiognomicamente al cugino antipatico di Beppe Viola – ed è significativo che le scene finali del film siano i gol, quelli veri, di repertorio del Rodomonte di Malmoe. Immagini che ci fanno capire quanto sia difficile trasporre in fiction quello che è già romanzesco “in natura”, ovvero una partita di calcio, in particolare quando il protagonista è già un mito letterario. Quindi, il film non è un capolavoro. Il vero capolavoro rimane Ibra.