Dopo il pareggio a Belfast
“Andremo in Qatar”, assicura il Mancio a un paese fatto di vittime e giudici
Da una parte c'è la schizofrenia del tifoso, dopo la sbornia di Wembley. Dall'altra, la giusta distanza del commissario tecnico, che prova a indicare la via della moderazione. Un'impresa ormai, quasi quanto volare in Qatar per i prossimi mondiali di calcio
Roberto Mancini ha quella faccia un po’ così, da italiano non in gita che, tre giorni dopo aver conquistato l’Europeo di calcio fa la fila dal salumiere a Jesi, bravo figlio che la mamma ha mandato a prendere il prosciutto (non il latte). Roberto Mancini è l’unico commissario tecnico, dei 60 milioni in servizio permanente effettivo, con la giusta distanza dal nostro modo delirante di considerare il calcio e la vita in genere.
Ci siamo svegliati dentro un altro playoff (incubo secondo un titolo) per la qualificazione ai Mondiali, dopo quello, fatale, del 2017, contro la Svezia. Siamo bruscamente rinsaviti dalla sbornia di Wembley – “football is coming Rome”, “ne dovete mangiare di pastasciutta”, “i campioni siamo noi” – per prenderne un’altra. Meno male che Mancini, non accusabile di ubriachezza molesta a luglio, ora sfoggia un ottimismo non di facciata. “Andremo in Qatar”. Stiamo con lui e contro la deriva pessimista che ci ha accompagnati da Wembley a Windsor Park. Gli “spiegatori” in servizio permanente effettivo, quelli che avevano illustrato le ragioni di quel successo con iperboli imbarazzanti, hanno virato sul depresso andante. In realtà, non eravamo fenomeni allora e non siamo pippe inarrivabili (aggettivo checcozalonesco) adesso. La verità? In quel giugno indimenticabile abbiamo creato qualcosa di unico, forse irripetibile. Mancini lo sapeva (e lo sa ancora) e da allora non ha mosso un muscolo facciale.
Noi invece siamo le solite vittime da stress post traumatico da trionfo. Dopo la finale con l’Inghilterra vagheggiavamo del “doble” (come direbbe Draghi: ma perché tutti questi termini legati al calcio in spagnolo? Mundial, triplete, ecc.), dell’imitazione della Spagna che vinse l’Europeo 2008 e poi il Mondiale 2010 (e pure l’Europeo 2012, ma a questo non ci siamo arrivati).
Un delirio che solo Mancini cercò di tenere a bada, presentandosi in bermuda dal salumiere, con “umilté” di sacchiana memoria. Quelli che pensavano alla doppietta in pochi mesi sono passati dall’esaltazione insensata al pessimismo inconsolabile, infilando la testa nel cappio quando questo non c’era ancora. Già un mese prima della partita con la Svizzera abbiamo cominciato a fare i conti con la differenza reti, coi “biscotti” (risultati addobbati, dopo gli arbitri, la nostra più grande ossessione), con le possibili avversarie dei playoff. Siamo un paese antitetico alla ragionevolezza. Leggetevi i commenti dopo Wembley (“l’inizio di un’èra radiosa”) e quelli di ieri (“il nostro è un calcio in crisi”). L’esempio più clamoroso di questo moto ondoso riguarda Jorge Luiz Frello Filho, in arte Jorginho. Io continuo a dire che meriterebbe il Pallone d’oro, ma la folla che mi accompagnava si è dissolta. “La leva calcistica del ’68” di De Gregori è un inno usa e getta. Jorginho ha sbagliato due rigori contro la Svizzera condannandoci ai playoff ed è proprio “da questi particolari che si giudica un giocatore”.
Siamo così, complicati e per nulla dolcemente, sempre per restare in musica. A proposito di playoff, ho letto pure questa amenità: il cambiamento della formula è svantaggioso, rispetto all’andata e ritorno. Sì, perché nel 2017, alla vecchia maniera, è stato un trionfo. Il nostro problema non è la scarsa qualità tecnica ma la pessima qualità sentimentale. Scambiamo l’ossessione per giudizio, transitando dalla passione senza costrutto alla cupezza irrecuperabile. Mancini, con la stessa faccia da Wembley a Windsor Park, prova a indicarci la via della moderazione. Un’impresa, proprio come andare in Qatar.