Il foglio sportivo
Filippo Tortu e il segreto dell'oro
“Sono rinato grazie a due psicologi eccezionali: Gimbo Tamberi e Greg Paltrinieri”. Intervista del Foglio al campione dell'atletica leggera. Che già sogna e si prepara per Parigi 2024
Le porte scorrevoli, che nello sport si muovono più velocemente che nel film con Gwyneth Paltrow, gli si erano chiuse in faccia dopo la semifinale di Tokyo quando si era trovato fuori dalla finale olimpica dei 100 metri vinta dal compagno-rivale Marcell Jacobs. Sulla testa di Filippo Tortu – l’enfant prodige del nostro sprint attorno al quale si muovono interessi economici (leggi sponsorizzazione Fastweb) mai visti finora nella nostra atletica – in quel primo agosto (magico per gli altri) era caduto un macigno che, sportivamente parlando, poteva lasciarlo lì, schiacciato dalla delusione.
Per gli idoli Jacobs e Tamberi la gloria e lo stupore del mondo, per il brianzolo di origine sarda un’attesa della staffetta da vivere nello sconforto: cosa c’era dietro la porta per il finalista dei Mondiali 2019, primo italiano a scendere sotto i 10” dei 100 metri? Oltre il più grande bivio della sua storia sportiva, a 23 anni lo attendeva la strada della crisi, con possibili rivoluzioni tecniche, o la via del riscatto? La “seconda che hai detto” può rispondere oggi il ritrovato fenomeno delle Fiamme Gialle. Sulla storica pista dell’Arena di Milano prova e riprova gli sprint che il nutrito staff tecnico, guidato dal padre Salvino, monitora come in un laboratorio della Nasa, con tanto di dettagliate video-analisi per ogni passo compiuto.
Oggi Filippo può confessare: “Sapete la verità? Io quella semifinale non ho mai voluto rivederla. Mi farebbe troppo male, anche riscontrare eventuali errori tecnici sarebbe solo un’inutile tortura”. E a mente fredda anche papà Salvino può ammettere: “Filippo non l’ho mai visto così giù come dopo quella semifinale. Hai voglia a spiegargli che il 10”16 era viziato da un problema tecnico, da un appoggio del piede perso. Io come tecnico e padre non potevo fare più niente, la sua rinascita era tutta nella sua testa, nella sua lucidità e nella sua capacità di introspezione”.
Tornato col capo chino nella sua stanzetta del Villaggio olimpico, quando il lieto fine era ancora tutto da scrivere, Filippo aveva trovato anche due alleati preziosi di cui oggi può rivelare l’identità. “Il primo è stato Gianmarco Tamberi, un amico che ho sempre stimato ma in quella circostanza ancor di più. Aveva appena vinto l’oro della vita, si era scambiato quell’abbraccio da copertina con Jacobs eppure, come mio vicino di stanza, ha passato ore a consolarmi, a spiegarmi, a convincermi che dai passi falsi, come quello da lui vissuto a Montecarlo, ci si rialza. Poi è venuto a trovarlo Gregorio Paltrinieri, reduce dal quarto posto dei 1.500 dopo l’argento degli 800, e gli ‘psicologi’ sono diventati due. Lì ho capito che nulla era perduto, che nei cinque giorni che mancavano alla staffetta dovevo costruire con mio padre la rinascita”.
Oggi dopo che l’immagine del ragazzo brianzolo vincitore per un solo centesimo sulla staffetta britannica – al netto del doping di Chijindu Ujah – ha fatto il giro del mondo, può sembrare facile dirlo. Ma all’epoca, uscendo dalla “call room” che precedeva la finale del 6 agosto, non era facile gridare, come fece Filippo: “Qui andiamo a vincere”.
Quei trecento metri dalla camera di chiamata alla posizione in pista di ultimo frazionista sono stati le sue “sliding doors”, il suo viale di gloria, più degli stessi cento metri finali dopo aver ricevuto il testimone da Patta, Jacobs e Desalu. Un oro, questo sì scontato da dire, che gli ha cambiato la vita. Svolte del destino come, in negativo, la rovinosa caduta in semifinale che gli impedì di partecipare alla finale dell’Olimpiade giovanile di Pechino nel 2014. Ma, in positivo, anche la semifinale dei Mondiali di Doha. “Se devo scegliere le altre porte scorrevoli della mia carriera penserei proprio a Doha: batterie superate per un centesimo, semifinali ‘salvate’ per un millesimo. Poteva andare diversamente come pure nel fotofinish della staffetta di Tokyo ma il mio destino me lo sono costruito con la mia testa, nessuno mi ha regalato niente”.
E Filippo non si riferisce solo a se stesso ma anche ai grandi esempi sportivi che vede attorno a lui nel suo quotidiano impegno di osservatore televisivo di tutti gli sport: “Non mi perdo niente. Ho sofferto insieme a Berrettini per quell’infortunio malefico che l’ha fermato nelle Atp Finals di Torino: anche quelle sono svolte del destino, ho capito subito che si trattava di qualcosa di grave. A volte bisogna avere la forza di fermarsi: a me era capitato qualcosa di simile in Diamond League a Stanford nel 2019 quando più che per il settimo posto mi fece spaventare l’infortunio muscolare così vicino ai Mondiali. Nel mio cuore ho festeggiato con Valentino Rossi per la sua ultima gara, mi spiace per l’addio di Federica Pellegrini e vivo di speranza per questo ciclo negativo della mia Juve. Non si può vincere sempre, siamo sulla strada giusta per risorgere”.
Oggi Filippo Tortu si è trasferito col fratello-manager Giacomo in un appartamento di fronte all’Arena e sta vivendo le gioie e il peso della notorietà: “Quando esco per strada mi riconoscono tutti. Prima di Tokyo non succedeva. Può capitare perfino che, mentre giro di notte col cappuccio in testa, qualche automobile si fermi e un fan mi saluti dal finestrino”.
Dopo aver assistito a un suo allenamento mattutino di tre ore all’Arena, nei giorni scorsi siamo stati testimoni a pranzo di episodi di allucinazione collettiva: per esempio un gruppo di professori che assicurava di aver avuto Filippo come studente mentre lui insisteva di aver fatto le scuole in Brianza. “Non sono uno che si monta la testa, mi conoscete. Faccio la vita di sempre: doppio allenamento dal lunedì al sabato, sonnellino pomeridiano, domenica consacrata al calcio, serate con gli amici di infanzia. In cosa è cambiata la mia vita? Per esempio nel fatto che fra premiazioni, impegni ufficiali e allenamenti non ho fatto vere vacanze. Solo quella che mi piace chiamare ‘settimana studio’ a Londra a cibarmi di calcio e musica col mio migliore amico, lo stesso di sempre”.
L’effetto Tokyo però si vede: quando la rinnovata pista di atletica dell’Arena la sera si popola di centinaia di ragazzini, non solo della Sprint Academy che ha dovuto allargare gli uffici e anche gli organici per gestire un business degno di un campione olimpico. Nell’area tecnica, sotto il coordinamento di Salvino Tortu, spiccano il direttore sportivo Alessio Conti e il fisioterapista Mario Ruggiu, storico massaggiatore della Pro Patria di Cova e Panetta che nella sua palestra attrezzata di Muggiò si occupa anche della mobilità articolare.
Ma per un ragazzo di 23 anni anche un oro olimpico in staffetta non può essere che un traguardo intermedio. Il futuro passa ora dai 200 metri dove Filippo ha un obiettivo finale già scritto: Parigi 2024. “I 200 sono sempre stati il mio approdo naturale, solo una serie di imprevisti ci ha costretti a spostarlo nel tempo. Non lascerò i 100 e la staffetta ma ora la mia preparazione è finalizzata alla doppia distanza: qualche gara indoor giusto per provare la gamba, poi i Mondiali di Eugene (Oregon, Stati Uniti) e soprattutto gli Europei di Monaco di Baviera dove posso puntare al massimo traguardo. Per fortuna non devo più pensare al minimo, grazie al 20”11 ottenuto in altura a Nairobi in settembre. E dire che quel giorno non volevo neanche gareggiare perché avevo febbre e dissenteria: mi ero presentato al campo con la carta igienica in tasca, sono partito malissimo ma poi dopo la curva è scattato qualcosa. Non per niente ho fatto i secondi cento metri alla stessa velocità dell’americano Kerley che ha vinto in 19”76. Un personale di 20”11 che l’ha reso il secondo duecentista italiano di sempre dopo Mennea e che lo proietterà al top della carriera nel 2024, a 26 anni, quando ci saranno gli Europei di Roma e l’Olimpiade di Parigi: “Sì, bisogna fare programmi a lunga distanza ma questo non mi esime dal vincere prima”.