Foto Alessandro Garofalo/LaPresse

Il Foglio weekend

Il cuore de Dios. Quello di Maradona ha ispirato Napoli

Francesco Palmieri

Per effettuare l’autopsia sul Pibe de Oro fu necessaria la scorta: si temeva che i tifosi rapissero quella reliquia. Tra l’anima e il corpo di D10S, storia e tradizioni dalle “capuzzelle” all’Argentina

“Quell’uomo può cambiare tutto: la faccia, la casa, la famiglia, la ragazza, la religione, anche Dio. Ma c’è una cosa che non può cambiare: non può cambiare la passione”
Juan José Campanella,
“Il segreto dei suoi occhi”


“Oje vita oje vita mia, oje core ‘e chistu core”. “Cuore di questo cuore” canta ‘O surdato ‘nnammurato, che dalle retrovie della Prima guerra mondiale, epoca in cui venne composto, avrebbe riversato un giorno note e parole sullo Stadio San Paolo dove diventò un inno semiufficiale della squadra, sostenuto da decine di migliaia di voci, per celebrare le vittorie del Napoli durante molti anni. Più del cuore c’è solo il “cuore del cuore”, un posto che nessuno – come la maglia con il numero 10 – può ormai contendere a Diego Armando Maradona.

 

Fu per lui e sarà per lui che “batte il corazón”, come declama il motivetto degli anni Quaranta riadattato a coro nel 1986 per festeggiare Diego e che da allora milioni di volte è stato intonato. Il corazón, muscolo fondamentale della passione e della vita, fu estratto dal corpo del Diez alla sua morte, il 25 novembre di un anno fa, nel corso dell’autopsia per stabilire le cause del decesso. Non lo si seppe allora, ma solo adesso tramite indiscrezioni confermate dalle autorità argentine. Dovrà restare conservato per dieci anni in formaldeide nel Dipartimento di Anatomia Patologica della Soprintendenza scientifica della Polizia di Buenos Aires.

 

Come i reali asburgici nella Herzgruft di Vienna, come Fryderyk Chopin nella chiesa di Santa Croce a Varsavia, è toccato a Maradona che il muscolo dell’amore e della vita restasse separato dalle sue spoglie, avverando le inconsapevoli esaltazioni al cuore di quelle canzoni e cori negli stadi. Provato dagli abusi, intaccato dai microinfarti, dilatato dalla generosità con cui lo aveva speso o dissipato, nel campo e fuori, da calciatore e dopo, il cuore del Pibe risultò sulla bilancia degli anatomisti pesante grammi 503, quasi il doppio di uno normale. Più del cuore di un imperatore austroungarico, quello di Diego Armando Maradona imperatore del calcio si è fatto simbolo di un amore corale che s’autoalimenta. Sempre adesso si è appreso, un anno dopo, che la polizia argentina applicò misure di massima sicurezza per traslare presso il dipartimento di Anatomia quell’organo prelevato assieme a campioni di fegato e reni. Un’operazione che si svolse sei giorni dopo la morte, nel mattino del primo dicembre, e per la quale furono mobilitati più di cinquanta agenti e persino i pompieri. Insomma una scorta da presidente degli Stati Uniti.

 

Motivo? S’era scoperto che i sostenitori del Gimnasia y Esgrima La Plata, l’ultima squadra allenata da Maradona, avevano elucubrato un piano per sequestrare la reliquia e conservarla in proprio quale simbolo speciale di passione del club calcistico, il più antico ancora attivo nell’America Latina (fondazione 1887). Proprio loro, quei tifosi che per ironia della sorte sono soprannominati Los Triperos, “gli sbudellatori”, e non perché rubino cuori o frattaglie umane ma perché nell’originario bacino topografico del Gimnasia y Esgrima operavano parecchie ditte per la lavorazione delle carni.

 

Il corpo di D10S si riassumeva nel suo piede sinistro e nel suo cuore. E quando se n’andò anche il corpo, malandato per eccessi inevitabili ma non un’oncia meno sacro o meno amato, qualcosa di tangibile di lui doveva permanere. Specialisti di reliquie, i napoletani in materia di cuore comprendono gli argentini meglio degli altri. Perché per definire un dolore morale dicono “un buco in petto”; perché i figli sì, sarà pure un modo abusato di dire ma sono comunque “piezze ‘e core”; li comprendono perché due cuori malati e affratellati come Massimo Troisi e Pino Daniele composero assieme e accordati a un destino la canzone ‘’O ssaje comme fa ‘’o core’; e li comprendono pure perché dalla plebe all’aristocrazia il cuore enfatizzarono come punto centrale della parola onesta. Basta andare alla Cappella Sansevero dove c’è una statua che questo raffigura: l’allegoria della Sincerità scolpita da Francesco Queirolo mostra una donna che porge un cuore con la mano sinistra. Non si può sapere se il principe scienziato Raimondo di Sangro, commissionando l’opera, abbia rubato al popolo l’espressione tuttora diffusa “Te parlo c’’o core ‘mmano”, o se al contrario la plebe abbia tolto ai principi borbonici questa perifrasi della schiettezza.

 

Il cuore di Diego restò per metà a Napoli sia mentre continuava a battere dentro il suo petto in Argentina, sia adesso che fluttua nella formaldeide di un boccaccio, perché quando tradì qualcuno il tradito fu se stesso, mai i tifosi o la maglia. Napoli altrimenti non lo avrebbe perdonato, come non aveva perdonato prima di lui José Maria Altafini e poi Gonzalo Higuaín, rei del trasferimento alla Juventus e titolari entrambi di un soprannome saltato dall’uno all’altro, dalla stagione calcistica 1974-75 a quella 2016-2017: Core ’ngrato. Come il titolo della canzone scritta da due emigranti nel 1911 a New York per la voce di Enrico Caruso, che lamenta gli strazi sofferti per colpa di una spietata Catarì, Caterina. Così patirono i tifosi per il passaggio di Altafini al club più detestato, reso ancora più grave dal gol con cui, il 6 aprile del ’75, a due minuti dalla fine strappò lo scudetto dalla maglia alla sua ex squadra. Peggio di un cuore nero, o di pietra, è il cuore ingrato. Questo sancisce la morale napoletana collocandolo all’ultimo posto nella classifica dell’anima, dove al rovescio, primo per purezza, c’è il cuore “analfabeta” su cui come su pagina intonsa s’apre uno spazio immacolato per il sincero dettato amoroso. La metafora, manco a dirlo, fu firmata dal principe de Curtis con una brevissima poesia che fa così: “Stu core analfabeta / tu ll’he purtato a scola, / e s’è mparato a scrivere, / e s’è mparato a lleggere / sultanto ‘na parola: / ’Ammore’ e niente cchiù” (se siano retorici i versi di Totò, e non lo sono, chi di noi che spendiamo cuoricini digitali sui social sarebbe autorizzato a chiosarlo).

 

Il cuore è un’icona, e il cuore di Maradona conserva un significato simbolico direttamente legato alla società, dipendente cioè da qualcuno che lo crei, lo utilizzi, lo diffonda”, spiega il sociologo Massimo Cerulo dell’Università di Perugia. “Tante volte abbiamo sentito dire: ‘Quanto è grande il cuore di Maradona!’, per le azioni di beneficenza del campione argentino nei confronti dei poveri, degli ultimi, dei diseredati. Oppure ‘Diego giocava con il cuore’, frase ascoltata spesso da parte dei suoi compagni di squadra, di qualsiasi nazionalità, per sottolineare l’energia emotiva irradiata dal Diez nei confronti di coloro che gli giocavano al fianco. L’estrapolazione del cuore dal corpo di Maradona è come un processo di costruzione dell’icona: la trasformazione del campione in immagine è pienamente nel suo farsi e vive su un perenne confine tra sacro e profano, se si pensa che col cuore vengono raffigurati, nell’iconologia cristiana, il Cristo o la Madonna. Alla ‘gloria’ è dunque destinato il cuore di Maradona in quanto icona, immagine ‘sacra’. Non c’è da meravigliarsi”, aggiunge Cerulo. “Basti ricordare con quali parole i napoletani accolsero il calciatore: il salvatore, l’unto, il re… E a supporto della costruzione dell’icona, anche il tetragramma D10S. Maradona entra nelle case di fianco ai santi della gente e ai defunti. Non mi sorprenderebbe se i pastorai di San Gregorio Armeno lo effigiassero, nei prossimi giorni, col cuore messo a fianco”.

 

Oppure in una mano, come la scultura nella Cappella Sansevero. Chissà. Se lo avesse rappresentato Andy Warhol “lo avrebbe probabilmente ritratto col suo cuore illuminato, psichedelico”. Quello di Maradona rappresenta, prosegue Cerulo, “un contenitore di affetti e simboli, che possono donare calore e conforto all’esistenza ossigenando una quotidianità a volte asfittica. Nella sociologia fenomenologica, il cuore di Diego è una ‘cosa’, termine che viene da una contrazione del latino ‘causa’ e indica esattamente ciò che ci sta a cuore e per cui si lotta al fine di ritrovare concordia, ossia cum cor cordis. Col cuore”. E di impensabile concordia fu testimonianza, durante le esequie di Maradona capaci di cotale magia, l’abbraccio tra i tifosi del Boca Juniors e del River Plate vestiti delle rispettive magliette. Proprio loro, già rivali così irriducibili che nel 2018, per disputare senza gravi incidenti la finale della Copa Libertadores, bisognò trasvolare l’oceano e giocarla al Santiago Bernabeu di Madrid.

 

Il furto progettato dai tifosi del Gimnasia seguì allo squallido selfie dei tre dipendenti della camera mortuaria col corpo esanime di Maradona, per cui persero il lavoro e sono stati rinviati a giudizio. Ma richiama pure da vicino la predazione di reliquie dai trapassati in odor di santità dei secoli scorsi: fiale di sangue, ciuffi di capelli, brandelli delle vesti, effetti personali sottratti nell’impeto della devozione popolare cattolica affinché di quei corpi qualcosa restasse a testimoniarne il passaggio fisico e a giustificare il prodigio di un futuro contatto, che nemmeno la morte potesse abolire una volta per sempre. Come non si possono abolire i sogni con cui le anime tornano a visitarci per elargire segni, premonizioni o per scambiare reciproci conforti. È quest’irradiazione emotiva, non un’ipotesi teologica, che ha fatto scrivere a Paolo Sorrentino su Instagram, nell’anniversario della morte del Pibe, la frase: “Un anno senza Dio”. Il giorno prima era uscito nelle sale il suo film autobiografico, nel quale si racconta che senza Maradona forse nemmeno lui regista ci sarebbe stato. O tutto sarebbe stato diverso senza lo scambio di cuori che Diego ha consegnato al mondo e viceversa. Come siano possibili certe alchimie resta mistero: “È stata la mano di Dio”, forse solo così si può rispondere.

 

Costretti dalla Storia, o da fatalità che affondano in circostanze primigenie dell’epopea nazionale, gli argentini non lasciano partire facilmente i propri miti per l’altrove. Sanno che Carlos Gardel continuerà a cantare il tango se chi visita la tomba nel cimitero della Chacarita mette una sigaretta accesa tra le dita della sua statua, perché finché fuma sarà abbastanza vivo per restare. Allo stesso modo gli argentini seguirono con apprensione, curiosità o disprezzo le peripezie della salma imbalsamata di “santa” Evita, come se in virtù di queste fosse rimasta parzialmente viva. Si domandarono e ancora si domandano dove siano finite le mani trafugate e la sciabola di Juan Domingo Perón, che guidò per tre volte la nazione e che quel vilipendio 13 anni dopo la sua morte rese di nuovo presente. Pure si chiesero a lungo dove fossero le mani di Ernesto Che Guevara, mozzategli in Bolivia dopo l’esecuzione. E ancora si domandarono, gli argentini, negli anni della dittatura di Videla e della “guerra sporca”, dove si smarrissero d’improvviso certi parenti, vicini o conoscenti né morti né vivi ma scomparsi: “A quei tempi le persone sparivano a migliaia, senza ragione apparente. Sparivano ambasciatori, amanti di capitani e ammiragli, proprietari di imprese che facevano gola ai generali. Sparivano operai all’uscita della fabbrica, contadini che lasciavano i trattori col motore acceso, morti che erano stati sepolti il giorno prima e le cui tombe venivano trovate vuote. Sparivano bambini dal ventre delle madri e sparivano madri dalla memoria dei figli”, scrisse Tomás Eloy Martínez nel romanzo dedicato ai desaparecidos intitolato, non a caso, “Purgatorio”. C’è l’angoscia di veder svanire i corpi, l’ansia di trattenerne un pezzettino in questa vita.

 

Come accade nel Purgatorio napoletano, col culto delle anime tramite le “capuzzelle” negli ipogei, che intesse un’altra affinità tra due latitudini lontane e vicinissime su cui Diego Armando Maradona regnò e di cui catturò i cuori. Non di tutti, in verità. Per rimanere immune bastava odiare il tango, essere algido o scettico, fanatico soltanto del cricket o dell’hockey su ghiaccio.

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