Stipendi e responsabilità. In Nba i giocatori iniziano ad avere problemi con i soldi
A Philadelphia si sta combattendo la guerra fredda fra Ben Simmons e i 76ers. Sotto canestro stanno emergendo problemi di tenuta mentale
20 giugno 2021, Gara 7 delle semifinali dell'Eastern Conference fra Atlanta Hawks e Philadelphia 76ers: 3 minuti e mezzo alla fine del quarto periodo e Philadelphia sotto di due punti. La palla va, spalle a canestro, a Ben Simmons, che si libera facilmente per quella che si prospetta una semplice schiacciata. Ma non andrà così.
Quella palla così pesante Simmons deciderà di passarla a Matisse Thybulle, che subirà fallo: uno su due ai tiri liberi e Sixers che non riusciranno a sopperire allo svantaggio.
Ma perché tutto questo è importante? Quel 20 giugno è il terminus post quem si possa davvero iniziare a parlare del caso Simmons.
Il casus belli: i commenti di Joel Embiid e Doc Rivers
Dopo i fatti, Joel Embiid e coach Doc Rivers hanno criticato pubblicamente Simmons in conferenza stampa, additando quel tiro mancato come il vero spartiacque della partita, nel caso del primo, e replicando "non sono in grado di rispondere, al momento" alla domanda se l’australiano potesse essere la point guard di una squadra da titolo, nel caso del secondo.
Al di là della fondatezza delle accuse, quantomeno opinabili, criticabile a livello etico è il modus operandi scelto dai due per parlare di Simmons, che ha esposto alla gogna mediatica il singolo giocatore anziché i problemi avuti dai Sixers nel corso della serie.
Questa iniezione di sfiducia in un giocatore così storicamente fragile anche in certi aspetti di gioco, da parte delle stesse figure che lo avrebbero dovuto supportare, ha scatenato una reazione immediata.
L’estate a Los Angeles e il ritorno forzato a Philadelphia
Nel corso di un incontro in offseason, avvenuto a Los Angeles nella villa dell’agente del giocatore, Rich Paul di Klutch Sports, Ben Simmons avrebbe espresso di fronte al President of Basketball Operations Daryl Morey, al General Manager Elton Brand, Doc Rivers e al Managing Partner dei Sixers, Josh Harris, la propria volontà di non giocare più con la squadra.
L’acme della tensione si è raggiunta tempo dopo. Simmons non si è presentato al training camp il 28 settembre scorso, rifiutando anche di incontrare un’ambasceria di compagni diretta a Los Angeles, composta di Embiid, Tobias Harris e Thybulle.
La dirigenza ha risposto con singole multe da circa 360.000 di dollari l’una per le assenze estive, accumulatesi fino a raggiungere la cifra di 1.4 milioni.
Ma il punto di svolta è un altro. Dopo aver regolarmente provveduto a fornire al giocatore il 25 per cento dei suoi 33 milioni di dollari di stipendio annuale il 1° agosto, i 76ers hanno deciso di trattenere l’altro 25 per cento del mese di ottobre, versando la quota in un conto vincolato. Simmons, privo di entrate fiscali, si è così trovato costretto a una decisione drastica.
La sera del 12 ottobre sullo smartphone di Elton Brand arriva un messaggio inaspettato: “Hey, c’è Ben fuori dal palazzo!”. Dopo mesi lontani, sembra essere arrivato il tanto atteso ritorno. O, forse, no.
Nei primi allenamenti con la squadra, Ben appare come un ente estraneo nelle clip tanto che il 19 ottobre Rivers decide di allontanarlo dalle attività di squadra a causa della riluttanza nel partecipare attivamente ai workout.
Nonostante si arrivi a parlare di problemi alla schiena e di temporeggiamenti per un eventuale scambio, la vera motivazione alla base di questo comportamento si rivelerà più complicata. Simmons, fin dall’estate catalogato come “non pronto mentalmente”, starebbe in realtà affrontando da mesi un percorso di psicoterapia con dei professionisti forniti dalla NBA. Conclusione logica, ma che di conclusione non ha nulla. I Sixers, con una procedura discutibilmente invadente, hanno chiesto accesso ai fascicoli terapeutici di Simmons, che si è trovato costretto a fornire i propri dati dopo l’ennesima sospensione di stipendio.
A oggi, però, la società non reputa comunque che ci sia un valido motivo dietro le assenze del giocatore, che continua ad allenarsi da solo in attesa di una trade, mentre le multe a suo carico si accumulano e il conto resta vincolato, in un gioco dannoso per entrambe le parti.
Mental Health, un tabù da sfatare
Alcuni commenti di Embiid sul non voler fare da babysitter e la linea scelta da Rivers, che ha ignorato la presenza di Simmons alle film session, rappresentano il vuoto percettivo diffuso in un ambiente che vive ancora di tabù retrogradi, nonostante la sempre maggior sensibilizzazione sui problemi di mental health fra atleti professionisti.
Non solo. Se anche si volessero prendere le parti della dirigenza, dando la priorità al concetto inoppugnabile di business, basti sapere che a tutelare Simmons e Rich Paul esiste anche una clausola del Collective Bargaining Agreement (art. 2, sez. 4), che fa della disabilità mentale qualcosa di molto assimilabile, giustamente, ad un infortunio – grave, per giunta: “Se il giocatore fallisce nel rendere i propri servizi a causa di una disabilità mentale, la terminazione del contratto da parte della squadra non lede in alcun modo il diritto del giocatore a ricevere la propria compensazione.”
La critica – purtroppo ricorrente tra opinionisti e tifosi nelle ultime settimane – per cui il giocatore dei Sixers avrebbe dichiarato il problema solo una volta messo con le spalle al muro è stata smontata da professionisti del settore. E poco importa se, nel frattempo, un’altra (ex-)prima scelta di Philadelphia, Markelle Fultz, dichiari di aver giocato segretamente per mesi sopra un infortunio, facendolo aggravare, a causa del carico mentale delle responsabilità della sua prima stagione. Poco importa perché la frase di Andre Iguodala “più soldi facciamo, più ci allontaniamo dall’essere umani” si addice perfettamente all’intera vicenda di Ben Simmons, vittima e carnefice di un sistema che fatica a riconoscere la persona dietro gli zeri dello stipendio.
Mattia Tiezzi è responsabile della sezione analisi per aroundthegame.com