È stata la mano di Malagò. La Persona dell'anno del Foglio
Con i successi dello sport nazionale nel 2021 è diventato un simbolo del riscatto italiano. Il dna imprenditorial-automobilistico, la “romanità” arricchita con efficienza milanese. La politica, i luoghi amati, gli amici. Un ritratto-intervista
Attendiamo in una sala impressionante: tutte le torce olimpiche dagli albori a oggi, illuminate ognuna nella sua nicchia. Una stanza che piacerebbe a Wes Anderson. Poi, libri celebrativi delle Olimpiadi romane del 1960, medaglie, trofei. Infine lunghissimi corridoi, stile monumentale – siamo al Foro Italico. Veniamo ammessi nell’ufficio dell’uomo che tiene in mano i destini dello sport italiano. Ufficio vastissimo, con grande vetrata sul Lungotevere, accanto allo stadio Olimpico, in questo storico “palazzo H” progettato da Enrico Del Debbio nel ‘27, rosso pompeiano, tra le statue candide mussoliniane e l’obelisco Dux. Un popolo d’atleti. Tre fotografie alla parete: Mattarella, Totti e il promontorio del Circeo. Quasi un manifesto. E’ anche la stanza dei giochi di un bambino molto cresciuto: quadri, foto con Agnelli e Montezemolo e Federica Pellegrini, e poi bandiere italiane e dell’Unione europea, il diploma nuovo di zecca di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Ma tutto come immerso in un clima festoso e colorato. Istituzionale, ma allegro. Più l’ufficio di un self made man che di un presidente del Coni. La sede di una startup della Silicon Valley catapultata nella cornice un po’ monumental-sinistra del complesso del Foro Italico.
Giovanni Malagò (Persona dell’anno per il Foglio), ciuffo grigio e camicia a righe con iniziali, cammina seguito da uno stuolo di assistenti che faticano a stargli dietro. Uno prende nota seduto traballante su una palla Technogym. Malagò risponde a telefonate, controlla le notizie, con un occhio guarda uno schermo televisivo e con l’altro la distesa di fascicoli disposti sull’enorme scrivania, dove, in cartelline identiche, ci sono i fascicoli più disparati, molti evidenziatori messi in fila come soldatini, una foto delle figlie avute con Lucrezia Lante della Rovere. Dicono che risponda sempre in giornata a tutti. “Certo”, scatta lui, militare, “e per tre motivi. Primo, che se non lo fai poi il lavoro si accumula, secondo, per educazione, terzo, per i clienti, un insegnamento di mio padre. Ogni telefonata può essere un cliente e se non gli rispondi può cambiare idea”.
C’è tutto Malagò in questa triade, il giannilettismo del potere romano soft di fascia alta, l’educazione di un certo mondo e anche una certa imprenditorialità berlusconiana col gusto dell’enumerazione, perché questo sessantaduenne che gestisce i destini dello sport italiano ha un dna imprenditorial-automobilistico. Suo padre infatti fondò un leggendario impero degli autosaloni, la Samocar, concessionaria Ferrari e Maserati e un tempo Bmw che per anni ha motorizzato i romani abbienti. E’ ormai parte del paesaggio della città. La grande vetrata che affaccia su un ingresso di Villa Borghese, i turisti che si fermano e restano incantati dalle fuoriserie. Quasi un monumento aggiunto. A Roma la conoscono tutti. “e’ uno dei tre concessionari più belli al mondo. Con dentro i mosaici di Dorazio. C’è quello della General Motors a Fifth Avenue, quello Renault a Champs Elysées e il nostro”. Suo padre però cominciò con i camion usati nell’Italia neorealista del dopoguerra.
La triade di Malagò: il giannilettismo del potere romano soft di fascia alta, l’educazione di un certo mondo e anche una certa imprenditorialità berlusconiana col gusto dell’enumerazione
“Andava fino a Pistoia per venderli. Perché a Pistoia c’erano le campagne e servivano i camion per portare i prodotti della terra. Solo dopo arrivarono le macchine. Cominciò con le Ford. Poi il botto con la Bmw. Il successo arriva negli anni Settanta: quando l’abbiamo presa, ne vendevamo 128 all’anno, quando l’abbiamo lasciata, tremila. Era la più grande concessionaria…”. Di Roma? “No, del mondo”. Enumerazione e orgoglio. “Adesso Bmw non l’abbiamo più ma siamo sempre il più grande concessionario di Ferrari e Maserati”. Malagò guarda l’effetto che fa. Susanna Agnelli lo definiva “Megalò”. Però è davvero irresistibile. “Ve sto a dà un sacco di chicche. Però concentratevi ragazzi”.
Qui si trasforma in versione allenatore, già, perché bisognerebbe anche parlare un po’ di sport. Chissà quanto Malagò c’è, per esempio, dietro questo titolo di “paese dell’anno”, secondo l’Economist, ennesimo successo di un anno pazzesco: Tokyo, le medaglie, gli Europei, l’Italia che torna finalmente di moda. E’ stata la mano di Malagò. “Tokyo ha fatto bene all’Italia e fa bene alla cultura sportiva che da noi è ancora troppo calciocentrica. Oggi si vedono ancora le bandiere nei balconi, a distanza di mesi. La gente magari ora parla di taekwondo, di karate. Le medaglie servono anche a questo”. Forse anche Brunetta, neo cintura nera “primo dan” di judo, e foto d’ordinanza con Malagò, è un’onda lunga dell’effetto-Tokyo.
L’Avana
Malagò è romano ma non è romano, ha quell’uso di mondo dei romani che hanno viaggiato, è un Draghi più piacione, con un twist di sudamericanità. Dietro di lui, le foto di Avana, Frison e Mou, tre cani amati. Avana per la mamma. “Sì. Mia madre veniva da una buona famiglia di Cuba, aveva conosciuto mio padre qui a Roma. Si sono sposati nel ‘56 nell’isola, ma poi è arrivato Fidel e allora se ne sono andati perché hanno requisito tutto. Io mi sono rifiutato per decenni di tornarci fino a quando, quindici anni fa, i miei hanno celebrato le nozze d’oro nella stessa chiesa e con gli stessi invitati dell’epoca e non le abbiamo potuto dire di no, e così siamo partiti tutti per Cuba”. Altri legami con l’Avana: “Il sigaro cubano, unico prodotto non italiano che consumo”, perché Malagò si vanta d’essere gran patriota, “vesto italiano, bevo italiano, mangio italiano, mi piace così”, dice, e si narra che anche nelle trattative per portare a casa le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 di cui è l’uomo forte, molto abbiano contato il suo charme assai italiano, lo stile agnellesco, le cravatte Marinella, insieme, di nuovo, al lettismo, stile romano fatto di ascolto e memoria – “bisogna ricordarsi tutti questi qui”, dice, brandendo un libretto con l’elenco dei soci del Cio. E poi di nuovo inanella una serie di nomi di squadre e atleti cubani dai nomi spagnoli incomprensibili e a noi inauditi (“è l’uomo che sa di più di sport al mondo” ci confida Enrico Vanzina, amico storico e sodale, e compagno di circolo). Malagò è infatti il Fidel Castro del Canottieri Aniene.
L’Aniene
E’ stato giovanissimo socio, poi presidente, ora presidente onorario di questa repubblica indipendente sul Lungotevere che ha migliorato, modernizzato, attualizzandola, “creando anche la succursale dell’Aquaniene, in cui in pochi credevano”, dice Vanzina, e qui Malagò descrive il più celebre circolo romano non come un posto dove si va un po’ a fare lobbying vecchia maniera, come cioè viene descritto nella vulgata o nei film (“ma per carità, ma ti pare che vado nello spogliatoio a parlare degli affari miei del Coni”), bensì come una specie, appunto, di entità autonoma, quasi di Stato, “la vera palestra della mia vita, più dell’azienda di famiglia”. “Chi non lo conosce non sa di cosa parliamo. E’ insieme un ente no profit. E un’impresa, con oltre 200 dipendenti. E la società sportiva più grande d’Italia, quella che porta più atleti al paese. A Tokyo, oltre il dieci per cento delle medaglie l’hanno presa atleti dell’Aniene. Capisci che per comandare una realtà del genere devi essere allo stesso tempo imprenditore, dirigente sportivo” e politico, aggiungiamo noi.
Anche la romanità un po’ becera dei circoli sarebbe un mito. “Ci sono oltre 250 soci dell’Aniene che non stanno a Roma. E 150 stanno a Milano, però quando vengono a Roma trovano il club più bello del mondo”. Lui è diventato presidente di questo regno tropicale “a 38 anni quando l’età media era di 70. E per un caso assoluto, perché nella tornata precedente i due sfidanti avevano preso esattamente lo stesso numero di voti, 297 contro 297”. Già, la votazione, perché una delle mitologie più persistenti a Roma è quella dell’ammissione a questo Bilderberg sul Tevere.
Un sacco di gente è pronta a sborsare trentamila euro l’anno, a fare una lista d’attesa di due anni, e poi mettono il tuo nome in una specie di bacheca all’ingresso, esposto al pubblico ludibrio. Le poche volte che ci si è stati si è notato, in un angolo, quando si entra, un cartello e sopra i nomi degli aspiranti soci, che rimangono lì esposti allo sguardo dei passanti. “Ma solo per il periodo della frequenza”, dice Malagò. Cioè l’aspirante socio, dopo esser stato presentato da due soci anziani, deve frequentare per almeno tre mesi, e comportarsi bene, “in prova”. I nomi che sono esposti nel terribile cartello spesso sono di grandi funzionari, persone dello spettacolo, direttori di Rete. Qualcuno ha visto il nome di Paolo Sorrentino. “E’ stato ammesso tre giorni fa”, dice Malagò. Quindi anche lui ha subito la micidiale procedura. Dopo la frequenza, infatti, se l’aspirante socio si sarà comportato bene, sarà ammesso alla votazione. E lì, vige il sistema fantozziano della boccia bianca e della boccia nera. Roma è celebre per alcune bocciature. Per esempio John Paul Getty che prese le bocce nere e non fu ammesso al Circolo della Caccia – l’altro grande club romano, che però non ha uso di fiume, sta a palazzo Borghese, e dove l’età media è antica quanto i blasoni necessari per accedere.
Ma poi c’è il metodo Malagò. “Da quando sono presidente io, non è mai stato bocciato nessuno. E sai perché? Perché se li presento io, io li proteggo i miei candidati”. Malagò è un grande procacciatore di voti, per sé e per gli altri. “Si sa che i più motivati a votare sono sempre i contrari, mentre i favorevoli restano a casa. Sono come i No vax. Fanno tanto rumore anche se sono pochissimi. Ma allora sai che faccio io? Mi attacco al telefono e faccio venire i soci a votare”.
Sembra tutto una grande metafora del Quirinale. Come lo vede questo sport che appassiona tutti, le previsioni sul nuovo presidente della Repubblica? Berlusconi? Rischia di arrivare e prendere un sacco di palle nere. “Io la vedo come una schedina del totocalcio: 1x2. Può succedere di tutto. Quindi sì, anche Berlusconi. Penso che sia un esercizio poco intelligente stupirsi di quello che può succedere. Che poi ci sia qualcuno che ha più possibilità di altri è ovvio. Io sono fan di Draghi ante litteram. Sarebbe un eccellente presidente della Repubblica, ma mi hanno insegnato che non si va a guarnire un altare senza sguarnirne un altro”. E infatti sarebbe anche ora di fare questa riforma della Costituzione, sdoppiare Draghi: presidente del Consiglio e della Repubblica, alé. Oppure, Malagò in una delle due caselle, uno dei due altari sguarniti. A proposito, “Siamo andati per anni a messa nella stessa chiesa, a San Roberto Bellarmino, ma poi lui e Serenella hanno cambiato”. E siamo sempre, è ovvio, ai Parioli, Roma Nord, tra romani che fecero l’impresa, romani oggi da esportazione, che vincono premi un po’ ovunque nel mondo. Draghi, Malagò, i Maneskin. A proposito di Roma, lei ha votato Calenda? “Non me lo chieda”. “Ma siamo molto amici”. Ah, ecco. Malagò, con le sue palle bianche, è comunque il candidato ideale di quel fantasmatico grande centro liberale e un po’ anglosassone che qualcuno talvolta evoca. Da Malagodi a Malagò. E’ andato perfino all’ultima Leopolda. “Ma che c’entra. Io vado ovunque posso parlare di sport. Sono andato ad Atreju a parlare di sport. Sono stato a un’iniziativa del Pd in Toscana. Sono stato a colazione con Berlusconi, e poi sono rimasto a parlare sette ore con lui. Non capisco il clamore per la Leopolda. Ci sono andato almeno tre o quattro volte in questi anni. Però solo quest’anno qualcuno si è stupito o lo ha voluto notare”. Chissà perché. E invece le piace di più, e si trova meglio con un manager di derivazione automobilistica-milanese come Beppe Sala, già in Pirelli, o con un politico-accademico romano come Gualtieri?
“Beppe mi ha dato fiducia cieca sulla candidatura. Con lui c’è grande feeling, ha sostenuto con entusiasmo la scommessa del Roma-Cortina, non era per niente scontato. Gualtieri lo stimo, è uno molto serio”. E insomma è facile immaginare Malagò e Sala in un bel grande centro, liberale, tenuto insieme dal Frecciarossa, Roma-Milano, sempre lì (in Executive).
Roma Nord, Roma Sud
Però Malagò, come tutti i romani, si ritiene molto fortunato ad essere nato a Roma, oltre che molto fortunato nella vita in genere (“Bisteccone” Galeazzi, indimenticato cronista “larger than life”, sosteneva che ha “un culo grande così”). Due mogli bellissime e titolate, Polissena di Bagno e Lucrezia Lante della Rovere, due figlie, e poi una sfilza di flirt veri o presunti: Monica Bellucci, Carla Bruni, Anna Falchi e Martina Colombari. E poi Roma, e la Roma. Tra lo scudetto del 1983 e quello del 2001 Malagò sceglie il secondo. Ma, è chiaro, è una scelta complicata. “Nel ‘83 ritorno in aereo da Genova con la squadra e mio papà che era vicepresidente”. La Roma di Liedholm vinse lo scudetto al Marassi. “Nel 2001 sono andato con le mie figlie da casa al Circo Massimo a piedi”. La città era impazzata, paralizzata. Malagò fa sette-otto chilometri a piedi, andata e ritorno. E’ un ricordo bellissimo, dice, “e alla fine, se devo scegliere, scelgo questo perché c’erano anche le mie figlie”. Allo stadio ci va in una formazione classica. Sempre lui alla guida, Enrico Vanzina (“mio fratello”), dietro, sempre, scaramanticamente, anche se nessuno sta sul sedile del passeggero. A volte il dottor De Angelis, ex marito di Margherita Buy, a volte Carlo Verdone che però più spesso arriva da solo. E poi, in tribuna, spesso in compagnia di tifosi-amici, come Ricky Memphis, Nicola Piovani, Edoardo Leo.
Dice Vanzina al Foglio: “Giovanni mi considera un grande romanista, perché andavo in giro a seguire le trasferte, con suo papà”. I Vanzina hanno messo anche in “Yuppies” la famosa scena di Ezio Greggio che arrivando in un night e per far colpo sulla sua bella lancia le chiavi della Rolls Royce a quello che crede essere un posteggiatore, e quello invece è un ladro, e scappa con la macchina: sarebbe una cosa accaduta proprio a Malagò. “Ma non è mai successa, figuriamoci”, dice lui. “Piuttosto, funzionava così: all’epoca uno arrivava con la macchina e i parcheggiatori prendevano la chiave e la mettevamo, non so, nel cassettino, o nella aletta, o sotto il tappetino, e così poi le rubavano. Mica solo a me. A un sacco di gente”. La discoteca era il Jackie O’? “No, il Number One”. E comunque “un sacco di battute dei film dei Vanzina nascevano dalle chiacchiere tra noi, dal cazzeggio. Sono 45 anni che commentiamo le partite, e da anni abbiamo una chat, oltre a Enrico c’è dentro Verdone, c’è dentro Max Giusti, e altri, se la leggete ci fate dieci pezzi”. Questa è l’intercettazione che vorremmo veder pubblicata, anche a puntate, ogni settimana. A proposito, “Vita da Carlo”, la serie tv, l’ha visto? “Sì, bellissimo, un capolavoro, secondo me è la cosa migliore che ha fatto, glie l’ho detto e lui si è stranito. Non per togliere niente ad altri suoi film del passato che soni immortali, è chiaro, ma questo mi sembra proprio la cosa migliore”. Le serie le guarda? “Mai!”, salta su, orgoglioso. “Mai vista una serie in vita mia e mai visto un film in televisione!”. “Non ho tempo, guardate l’agenda”, e mostra, tra le distese di evidenziatori allineati, cartelline tutte uguali piene di impegni, progetti di barche, modellini di barche, una stampata di appuntamenti, incontri, manifestazioni. Ma Zerocalcare almeno l’ha visto? “No, me ne parlano bene ma no, so che è geniale, però…” sospira, “ovunque vado sono circondato da persone che mi parlano di serie televisive. Io sono davvero ammirato. Affascinato. Ma dove lo trovano tutto ’sto tempo?”. Malagò è orgoglioso della sua vita in overbooking permanente. Mostra l’agenda. “Scegliete voi un giorno”. Boh, domani. “ah, domani un inferno! Impossibile! Ecco un file excel stampato con caselle molto colorate, ogni colore un appuntamento con un grado di priorità e urgenza diversi, come i codici al pronto soccorso. Anche sabato sera, anche domenica. Malagò peggio di Renatino nello spot del Parmigiano reggiano. Del resto, tutti lo vogliono, lo cercano, lo chiamano per parlare di sport. Tragedie e onori.
Mentre siamo lì arrivano telefonate per il povero fratello di Debora Compagnoni travolto dalla slavina. Poi complimenti. Appuntamenti. Di certo anche tante seccature che però lui sopporta, è il peso della gloria. Dopo Tokyo, poi, Malagò è il simbolo del riscatto italiano, “man of the year”. Altro che serie tv! E ricorda molto quella volta, era un Sanremo, che Enzo Biagi chiese a Gianni Agnelli se vedesse il festival in tv. Davanti al diniego, Biagi disse: “Non sa cosa si perde”, e l’Avvocato, sardonico: “Non sapete cosa vi pevdete voi!”. “Anche su questo aveva ragione l’Avvocato”, dice Malagò, guardando una foto di Agnelli che campeggia appoggiata a terra, lui, Malagò, giovane, aitante, insieme a Luca Montezemolo, in scuro, e l’Avvocato già anziano con un abito chiaro. Hidalgos. Riflette ancora. “Forse per queste persone le serie tv sono l’opzione migliore tra quelle che hanno a disposizione. Io mi tengo le mie”. E chissà allora cosa riserva la Malago’-Life. “Mah… niente…”. D’accordo, ma stasera per esempio che fa? “Se riesco faccio un salto a casa del giovane Pietro Castellitto che fa trent’anni, siamo vicini di casa”. Sempre Parioli. Sempre Vietnam. “Un’enorme sciocchezza, questa storia”, dice Malagò. Ma non è anche lui, Malagò, un principe, un emiro, un ambasciatore di Roma Nord nel mondo? “Questa cosa la contesto molto. Due settimane fa sono andato al circolo Tennis Eur, hanno intitolato un campo a (e caccia altri nomi di sportivi mai sentiti). “Li conoscete, vero?” Noi fingiamo. “Anche lì erano sconvolti perché conosco a memoria tutti i soci del Cto. Io ho giocato per una vita, dai 14 ai 38, a calcio a 5. Per oltre dieci anni in serie A. E si gioca in periferia, non a Roma Nord. Guardate che io sono molto più conosciuto in periferia!”. Ma l’Eur non è periferia. Semmai, la Roma Nord di Roma Sud!
Milano, Sabaudia
E Milano? Sappiamo che sta sempre più tempo su. “Ma io, come tutti ormai, sono un pendolare. Passo due-tre giorni a Milano e il resto a Roma, come capita a molti romani e a molti milanesi”. Ma non sarà diventato anche lei uno di quei romani innamorati del Duomo e della Madonnina? Malagò, ma cosa fa chi a Milan cun stu cald? (cit.) “Ma veramente io la mia casetta in Brera ce l’ho da trent’anni”. Malagò dice “casètta” e “in” Brera. Si identifica. Entra in sintonia. Ma a Milano che fa? Chi vede? Per esempio, dove mangia? “Da Nobu, soprattutto perché mi lasciano fumare, e perché mi faccio fare apposta dei crudi di pesce, come piacciono a me”, dunque più carpacci che “nigiri”, Nobu come fosse il porto di Anzio. A Roma Malagò ha mangiato invece per una vita alla vecchia trattoria Santopadre, zona Porta Pia, “un pacchero con il pomodorino fresco pazzesco”. Poi al “Ceppo”, nel cuore dei Parioli. “Da tempo mi sono imposto ormai di passare due giornate piene a Milano, ogni settimana. Però, se posso dare un consiglio”, prosegue, “in questo momento comprerei casa a Roma. Lo dico con molta sincerità. Dopo aver suggerito all’epoca di comprare a Milano e Cortina, e visto com’è andata, direi che è il momento di comprare a Roma”. Il tema ci appassiona. Si drizzano le antenne. Vogliamo carpire segreti, soffiate, dritte del Malagò “insider trader” del Grande Romanzo Immobiliare italiano. E dove investirebbe a Roma Malagò? (prendete nota): “Adoro San Saba. Comprerei anche a Testaccio. In questo momento, poi, prenderei al Flaminio. Ma anche nella zona intorno a Villa Torlonia, o Monteverde, queste sono le zone dove comprerei”. Si riconsidera, alla luce delle dritte di Malagò, anche il nostro investimento immobiliare all’Esquilino, forse a questo punto davvero sbagliato. Si veniva qui attratti dal miraggio della “Belleville” romana, dunque, molto sporca, incasinata, multietnica, bohemienne e inspiegabilmente cara al metro quadro. Anche Sorrentino, che abita qui, come del resto Abel Ferrara e tre quarti del grande cinema italiano, poi alla fine cerca di infilarsi all’Aniene per dimenticare.
Da Atreju all’ultima Leopolda. Col Pd in Toscana. Sette ore a colloquio con Berlusconi. “Ma che c’entra. Io vado ovunque posso parlare di sport”. Ha votato Calenda a Roma? “Non me lo chieda, è un amico”. Quel gran feeling con Beppe Sala
E Sabaudia? “Eh…Sabaudia”. Qui si deve aprire una parentesi perché al solo nome, “Sabaudia”, Malagò si distende sulla poltrona, cambia espressione, gli si accende tutta una luce negli occhi, lo sguardo ispirato vaga nella stanza. Sabaudia apre l’orizzonte, come Tara per Rossella O’Hara nel finale di “Via col vento”. La sua casa qui è leggendaria, agglomerato di edifici candidi, ha ospitato negli anni le più belle attrici, ognuna con parrucchiere e truccatore al seguito. E cuochi, massaggiatori: meglio di una spa, di un centro benessere. L’ospitalità di Malagò è leggendaria, come la sua casa. Anche se negli ultimi anni, parallelamente al crescere del ruolo istituzionale, si son viste meno attrici e più grand commis. “Mi piace che i miei ospiti siano a loro agio, tutto qui”, dice lui con understatement. Sabaudia va inserita dentro la grande cornice estiva, al culmine di una progressione di mete vacanziere che hanno scandito il bildungsroman di Malagò, come in un crescendo anche sociale: “Anzio, poi Fregene, poi Argentario, poi casa in Sardegna, a Porto Rotondo, quando l’estate durava quattro mesi. Poi, dopo le figlie, dopo il divorzio da Lucrezia, volevo un posto dove poter stare con loro e ricostruirmi tutto un altro pezzo di vita. Finisco per caso a Sabaudia, perché vado a trovare Paolo Giaccio, mitico autore Rai, inventore di “Mister Fantasy”, per un pranzo. E’ il 1990. Me ne innamoro subito. Per un anno, durante l’inverno, faccio su e giù con Roma cercando di comprare una casa sulle dune e alla fine la trovo”. Oggi, quando ha un minuto di tempo libero, “cioè sempre di meno”, come dice lui, oppure quasi mai, Malagò corre a Sabaudia. Anche a Capodanno. Anche a Natale. “Passo duecento giorni l’anno fuori, due terzi della mia vita non dormo nel mio letto. Ora c’è stata la pandemia, e naturalmente si è bloccato tutto. Ma sono stato per quattro, cinque anni tra i tre italiani che viaggiavano di più. Prendevo un aereo al giorno”.
Forse gli altri due sono Draghi e il Papa. Chissà dove prende Malagò queste statistiche. Mentre l’intervista sta per finire, noi accasciati e rilassati, “Be’, direi che vi ho dato un sacco di roba, no? dice Malagò, e zompando in piedi, ricaricato non si sa come d’energie, mentre la giornata finalmente finisce, “e adesso guardiamo la posta!”, intima, baldanzoso e entusiasta agli assistenti stravolti. E più tardi si farà magari un salto ai Parioli, ma solo se ci sarà tempo.