Il Foglio sportivo
Riccardo Bocalon, il Doge congedato
Aveva Venezia ai suoi piedi, oggi è fuori rosa. “Hanno interrotto il mio sogno”. Parla al Foglio il giocatore artefice della promozione della squadra in Serie A
C’è stata una notte in cui tutta Venezia era ai suoi piedi – soprattutto il destro, l’esterno, scarpino arancio fiammante a tirar giù perfino uno stadio a porte chiuse. La gente in canale, presidente Niederauer compreso. Piazza San Marco riaccesa, ‘foghi’ e cortei, zona gialla lavata via. E per chi magari dormiva, ignaro dell’impresa, ci pensavano le campane a festa per le calli: “Din-don, din-don, ha segnato Bocalon”. L’attaccante veneziano che riporta la sua città in Serie A. Dopo 19 anni, tre fallimenti e la polvere del dilettantismo. Il sogno di ogni bambino, “iniziato da un Castello – sestiere di, ndr – come si addice alle favole”, parola sua. E però manca il gran finale, o forse c’è già stato e questa è un’altra storia.
Oggi il Venezia di Paolo Zanetti rosicchia credibilità di partita in partita: le imprese contro Fiorentina, Roma e Juve già di diritto nell’epica sportiva lagunare. Oggi il Pier Luigi Penzo è tornato alla vita, traboccante e fluttuante, come ai tempi del Chino Recoba. Oggi Riccardo Bocalon, il Doge della promozione, è fuori rosa: “Non metto più piede allo stadio da quel 27 maggio. Fa troppo male”.
È la prima volta che il calciatore rompe il silenzio. E non lo fa per prestarsi alla facile, abusata retorica del calcio crudele e ingrato con chi fino a ieri veniva portato in trionfo – cinico inciso: è un ragazzo di 32 anni, non ha mai giocato in Serie A e l’anno scorso era comunque la riserva di Francesco Forte, tra i centravanti più dominanti della cadetteria che a sua volta ora fatica a trovare spazio. Bocalon vuole liberarsi di un peso senza crearne altri. Tra il diritto individuale di soffrire – “vivo in un limbo: mai capitata una cosa simile, non la auguro a nessuno” – e quello societario di seguire le logiche manageriali di un progetto che cresce. “Ho provato fino all’ultimo a far cambiare idea alla dirigenza”, spiega l’attaccante al Foglio sportivo. “È stata un’estate dura, ce l’ho messa tutta, bastava poco per coronare qui la mia carriera. Fosse per me rimarrei al Venezia anche gratis. Ma non mi è stata data questa possibilità e ora aspetto con ansia il calciomercato di gennaio. Sono un sognatore realista: esordire in Serie A è difficile, finché gioco voglio provarci”.
Intanto Riccardo continua ad allenarsi, “parte della settimana insieme alla squadra e nei giorni restanti con gli altri giocatori in uscita o in esubero”. Dezi, Ala-Myllymaki, quel Gianmarco Zigoni che con una tripletta a Carpi due anni fa salvò gli arancioneroverdi dalla ricaduta in C. Lui e Bocalon sono gli unici ufficialmente senza numero: “Però è anche un’occasione per migliorare”, sottolinea il 24 congelato. “Soprattutto dentro di sé, scovando le forze per reagire e rimettersi in pista. Ho la testa e la corazza dura. Più uno stimolo extra: in questi 15 anni da calciatore ho vissuto picchi emotivi che in pochi possono raccontare”.
Breve ripasso. Più del proverbiale uomo giusto al momento giusto, Bocalon si è dimostrato specialista in tempismo. La mentalità forgiata nell’Inter di Mourinho, mentre con Mattia Destro faceva coppia d’attacco in Primavera. E proseguita ad Alessandria, quando trascinò una squadra di Serie C alla semifinale di Coppa Italia contro il Milan. Tutti gol da brividi: in odor di 90’ o ai supplementari. Come quelli valsi una promozione, altro pezzo forte di repertorio – anche Portogruaro, dalla C1 alla B, e già Venezia, dalla C2 alla C1. Le prove generali per quel giorno atteso una vita, “che mi ha fatto entrare nella storia della città”.
Riccardo si rivede lì, alla vigilia della partita: “Per la prima volta in carriera chiesi al mio allenatore di giocare”. E lui? “Basta che mi fai gol, mi spronò di rimando. Ci siamo accontentati a vicenda”. Nessuno avrebbe immaginato come: all’ultimo scatto, all’ultima azione, dopo oltre un tempo sotto di un uomo e nel punteggio. “Zanetti è un grande stratega, ma anche un motivatore”, dice Bocalon. “Sa toccare le corde giuste ed è riuscito a creare un gruppo eccezionale: l’anno scorso abbiamo vinto non perché eravamo i più forti, ma i più lucidi nella gestione delle difficoltà, con una precisa identità di gioco. La finale di ritorno contro il Cittadella è stata lo specchio di tutto ciò. E i ragazzi lo stanno dimostrando anche adesso”. Notare il passaggio dal noi al loro. “È giusto. Io sto solo guardando”.
Eppure nel sole di fine maggio tutti guardavano lui, alla testa di un corteo acqueo come solo Venezia sa offrire: da Canal Grande a Palazzo Ducale, l’inno a San Marco in loop, il Doge raggiante – “ma iniziarono a chiamarmi così tempo fa, lontano da qui, classico soprannome territoriale” – alla prua del Bucintoro. Roba da Serenissima. “Ho voluto assaporarmela tutta”, continua Riccardo, “davanti a mia moglie e alla mia famiglia: essere profeti in patria è come vincere al Superenalotto. E vedere negli occhi dei miei compagni lo stupore per una città unica vestita da Serie A mi rimarrà dentro per sempre. Sembravano in un altro pianeta”. Ben oltre le bellezze della laguna. “I cori dei tifosi dai ponti, le gondole tutt’attorno: dovevo far capire loro quanto valesse aver restituito a Venezia uno sport all’altezza. Sia il calcio sia il basket oggi le stanno rendendo onore”.
Era dal 1943 che gli arancioneroverdi e la Reyer non vincevano una partita del massimo campionato nello stesso giorno. A novembre è successo due volte. “E io ho preferito vederlo in tv. Che è comunque difficile, ma non come stare in tribuna, impotente, davanti a chi giocava con me fino a ieri”. Eppure l’atmosfera elettrica, il Penzo rimesso a punto, sono anche merito tuo. “Già. Ma per un attaccante che vive per il gol, sapete quanta fame fa venire una curva così?”. Niente. Bocalon è inconsolabile. “Da piccolo ci andavo sempre con mio papà e mio nonno, quando il Venezia di Zamparini era in Serie A: soffro perché il ricordo di quei giorni bussa forte. E vorrei esserne parte ancora, non solo da tifoso”. Poi, dalla voce rotta, un sorriso: “Ho ancora la foto con Recoba. Avrò avuto dieci anni, mi allenavo in una squadra amatoriale del centro storico e correva voce che stesse passando lì il nostro idolo. Vale oro, oggi”.
Diranno i soliti romantici: ma con il suo know-how locale, in un gruppo giovane che è una babele di lingue, perché non tenere Bocalon almeno come uomo spogliatoio? Lui si concede che “sì, non si sa mai, i miracoli possono sempre succedere”. Ma preferisce sottolineare questo: “L’importante è che il Venezia trovi continuità. Tacopina ha gettato le basi, Niederauer ha raccolto il testimone e perfezionato una solidità societaria invidiabile: spessore internazionale più due ex bandiere come Poggi e Collauto alla guida dell’area tecnica. Dopo anni di frustrazioni e una piazza disillusa, per ricostruire la fiducia servivano risultati. Ci sono stati. Non bisogna mollare adesso”.
Bocalon parla davvero da statista saggio e gentile, che nel nome della cosa pubblica accetta senza livore il verdetto del maggior consiglio. “Mi consolo pensando che quello che abbiamo fatto rimane”. Da Cannaregio al Lido, tutti per strada continuano a fermarlo: “No state preocupar, no se gavemo desmentegà de ti”, la cantilena in veneziano stretto. “E anche per i miei compagni, sono pur sempre il Doge”. Mica poco, nella città che aveva smarrito il calcio.